- Flea - Basso, Tromba
- John Frusciante - Chitarra
- Anthony Kiedis - Voce
- Chad Smith - Batteria
Guest Musicians:
- Phillip "Fish" Fisher - Batteria (in “Taste the Pain”)
- Jack Irons - Batteria (in “Fire”)
- Hillel Slovak - Chitarra (in “Fire”)
- Dave Coleman - Violoncello
- Patrick English - Tromba
1. Good Time Boys – 5:02
2. Higher Ground – 3:23
3. Subway to Venus – 4:25
4. Magic Johnson – 2:57
5. Nobody Weird Like Me – 3:50
6. Knock Me Down – 3:45
7. Taste the Pain – 4:32
8. Stone Cold Bush – 3:06
9. Fire – 2:03
10. Pretty Little Ditty – 3:07
11. Punk Rock Classic – 1:47
12. Sexy Mexican Maid– 3:23
13. Johnny, Kick a Hole in the Sky – 5:12
Mother's Milk
Avevamo lasciato i Red Hot Chili Peppers al 1987, all’uscita del loro eccellente terzo album, il caotico e ispirato “The Uplift Mofo Party Plan”, un disco che lasciava intravedere enormi spiragli luminosi per il futuro musicale della band californiana, e tetri spettri per l’avvenire personale dei suoi membri: come in una stregata profezia, ambedue questi fattori andranno a realizzarsi di lì a meno di un anno.
Dopo il rientro da un tour europeo, il 25 Giugno 1988, Hillel Slovak, chitarrista della band, muore a 26 anni per un’overdose di eroina, lasciando amaramente sgomenti i fans e colpendo in modo devastante i suoi ex-compagni di band. Anthony Kiedis, anch’egli all’epoca semi-distrutto dalla stessa droga (tanto che quando si seppero le prime, confuse notizie della morte di uno dei componenti dei RHCP, molti pensarono che la vittima fosse Anthony), provato dalla morte del compagno iniziò da questo momento ad allontanarsi da quel mondo orribile, mentre il batterista Jack Irons, amico d’infanzia di Hillel, fu talmente ferito dall’esperienza che lasciò la band in preda ad una crisi depressiva.
Dimezzati e privi dell’estro del loro chitarrista, i Peppers sembrarono sull’orlo dello scioglimento: eppure, nemmeno un quadrimestre dopo, la band risorgeva dalle proprie ceneri come l’araba fenice, pubblicando (siamo nell’Agosto dell’88) un lavoro sconvolgente, importantissimo, seminale: “Mother’s Milk”.
Confermato Michael Beinhorn come produttore, i due Peppers rimasti dovettero faticare per mettere assieme una nuova line-up: la ricerca di un chitarrista si risolse abbastanza rapidamente con l’ingaggio di John Frusciante, un giovanissimo fan di Slovak che da quel momento in poi segnerà, nel bene e nel male, il destino dei Red Hot; trovare un batterista fu invece un vero tormento, fra audizioni infinite e sessions temporanei – inizialmente la band puntò sull’ex-drummer dei Dead Kennedys, D.H. Peligro -che partecipò alla composizione di alcuni brani di “Mother’s Milk” senza però suonarli- ma non fu lui ad essere il compagno ideale per il basso di Flea: ad entrare nella band (per non uscirne più) fu invece Chad Smith, un batterista dallo stile non particolarmente veloce o cervellotico, ma dalla grande potenza e precisione – caratteristiche perfettamente complementari a quelle del fantasioso, carismatico e geniale bassista del gruppo.
“Mother’s Milk” cambiò repentinamente direzione rispetto al disco precedente, sviluppandosi su territori ben più commerciabili ed orecchiabili, meno ‘pazzi’ e più facilmente accessibili al grande pubblico; contemporaneamente, però, fu anche il primo disco del gruppo a godere di un suono compatto, solido, imponente: un muro di suono che finalmente realizzava a tutto tondo quel Crossover a cui il nome dei Peppers sarà indissolubilmente associato. La componente Metal si fa più udibile, grazie ad un lavoro di chitarra pesante e incisivo (in realtà, Frusciante voleva suonare in tutt’altro modo, causando diversi litigi con il ben più lungimirante Beinhorn), che incorporava anche diversi stilemi Funk, uno stile cui si possono ricondurre anche alcuni arrangiamenti obliqui e sontuosi; la furia Punk è nettamente attenuata, ma permea ancora gli episodi più incendiari, mentre il cantato di Anthony incorpora con maturità definitiva la grinta e il sudore dell’Hardcore, la sensualità del Rock e la metrica incalzante del Rap.
La band stupisce per come riesca a unire tutto ciò in un sound coerente e coeso, mostrato fin dall’opener “Good Time Boys”, aperta dallo slap di Flea e dalla chitarra godibilmente distorta di Frusciante, e successivamente guidata da un refrain cadenzato con tanto di ‘coro da stadio’ che non fa prigionieri. Ed è straordinario anche come i peperoncini di L.A. riescano a riproporre in questo loro personalissimo stile anche canzoni di altri artisti: è il caso della groovy “Higher Ground”, un classico di Stevie Wonder trasformato in un brano che ha in chitarre veramente trascinanti il proprio punto di forza, rendendolo un Rock ipnotico di grande successo, in cui il cantato corale di John e Anthony sfavilla e fa scatenare; ma non si può non esaltare anche l’altra cover presente, la versione Hardcore di “Fire”, di Jimi Hendrix, in cui appaiono per l’ultima volta Jack e Hillel: il loro apporto la rende violentemente calda, incalzante, maniacale, ancora più bollente dell’originale.
Ma i Peppers mostrano anche un’inedita atmosfera ombrosa e Dark, in brani come “Taste The Pain” (sapientemente orchestrata da chitarre e fiati, ma l’attenzione è catalizzata da un Anthony in stato di grazia, istrionico e sornione nelle strofe quanto indiavolato nel refrain) e “Knock Me Down”, una sentita ode da parte di Flea e (sopratutto) Kiedis al loro ex compagno Hillel – un brano dal tempo veloce e spedito, che non riesce a nascondere una sconfinata malinconia e tantissimo rimpianto dietro le chitarre graffianti e la batteria poderosa; le semplici tastiere di sottofondo e l’intervento di una vocalist femminile, inoltre, aumentano l’aura desolata di questo brano, una delle hit più famose del gruppo.
Non mancano comunque canzoni in cui riecheggia il classico marchio di fabbrica del gruppo, ovvero i momenti più pazzi e scatenati, in cui emerge la loro indole ‘freak’: è il caso dell'incendiaria “Noboy Weird Like Me”, uno dei masterpieces più sottovalutati di sempre in casa Red Hot. L’attacco di basso e batteria è devastante, la chitarra urla e riechieggia echi e distorsioni, mentre Anthony mostra tutto il suo repertorio, con il carisma proprio dei grandi cantanti: voce robotica, scatti violenti, momenti ammiccanti; ma vera protagonista resta la sezione ritmica, con un Chad Smith in versione terremoto e un Flea che non si riuscirebbe a fermare nemmeno con le cannonate: “Nobody Weird Like Me” è un susseguirsi di accelerazioni, slap, rallentamenti, bombe d’energia e lezioni di groove una dopo l’altra.
Altrettanto schizzata è la breve “Punk Rock Classic”, riassunta dal titolo nel proprio spirito più intimo, una traccia velocissima e schizofrenica (che causò una piccola controversia con i Guns‘n’Roses) in cui l’inguaribile passione del gruppo per il Punk e l’HC viene a galla in modo evidente; più cadenzate e affascinanti, invece, “Sexy Mexican Blonde”, in cui riemerge una delle altre passioni di Kiedis, quella per le belle donne e il loro charme, e la funkeggiante “Subway To Venus”, in cui gli arrangiamenti orchestrali delle trombe ci riconducono all’epoca di “Freaky Styley”.
Episodi minori del disco sono invece “Stone Cold Bush”, alquanto trascurabile nonostante un buon assolo di basso, e “Magic Johnson”, simpatica ma nulla più: i Peppers ci raccontano il loro amore per i Los Angeles Lakers e per le loro stelle dell’epoca (Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar) attraverso un brano che punta tutto sulla potenza di batteria e basso, praticamente escludendo la chitarra – inoltre, il cantato da ‘inno della curva’ non convince fino in fondo.
A chiudere “Mother’s Milk”, due degli episodi più particolari: il primo, “Pretty Little Ditty”, è una strumentale cortissima ma incredibilmente ispirata, circondata da un alone fiabesco e magico (quasi inutile sottolineare come Flea e John diano spettacolo), tanto attuale che sarà riutilizzata, in tempi recenti, dalla hip-hop band Crazy Town per il loro singolo “Butterfly”; l’ultimo brano “Johnny, Kick A Hole in The Sky” racconta della sfortunata parabola degli Indiani d’America, ed è immediatamente riconoscibile per i suoi cori possenti e per la caratteristica deriva Funky della chitarra di Frusciante, ancora molto debitrice dello Slovak-sound.
“Mother’s Milk” è il disco in cui i Red Hot Chili Peppers esplodono e maturano definitivamente, trovando la quadratura del cerchio e influenzando in modo sostanziale la nascente ondata di bands Crossover che mischieranno Rap, Metal e Funk. D’accordo, l’allontanamento dallo stile dei primi, sconvolgenti dischi può lasciare con l’amaro in bocca chi godeva nel sentire i Chilies in versione più sincera e sopra le righe, ma questo non toglie che “Mother’s Milk” risulti personale e innovativo.
Non solo importanza artistica, dunque, ma anche storica: la tendenza di questo disco ad un Rock più chart-oriented portò infatti i RHCP a strutturare meglio le proprie idee e a maturare coscientemente le proprie composizioni, permettendo alla band di compiere un netto salto qualitativo e ponendo le premesse fondamentali per quello che sarà il loro indiscusso capolavoro, il successivo “BloodSugarSexMagik”.
“...The Freakiest Show I Know
is the Show of my Own
Living my Life in and out
of the Twilight Zone
Bless my Soul,
I'm a Freak of Nature
Look and See I Think you'll agree
Nobody Weird Like Me...”