Voto: 
7.5 / 10
Autore: 
Gioele Nasi
Genere: 
Etichetta: 
Emi Records
Anno: 
1985
Line-Up: 

- Flea - Basso, Tromba
- Anthony Kiedis - Voce
- Cliff Martinez - Batteria
- Hillel Slovak - Chitarra

Guests:
- Maceo Parker - Sassofono
- Fred Wesley - Trombone
- Benny Cowan - Tromba


Tracklist: 

1. Jungle Man
2. Hollywood
3. American Ghost Dance
4. If You Want Me To Stay
5. Nevermind
6. Freaky Styley
7. Blackeyed Blonde
8. Brothers Cup, The
9. Battle Ship
10. Lovin' And Touchin'
11. Catholic School Girls Rule
12. Sex Rap
13. Thirty Dirty Birds
14. Yertle The Turtle

BONUS TRACKS (disponibili solo sulla ristampa)
15. Nevermind - (demo, bonus track)
16. Sex Rap - (demo, bonus track)
17. Freaky Styley - (original long version, bonus track)
18. Millionaires Against Hunger - (previously unreleased, bonus track)

Red Hot Chili Peppers

Freaky Styley

Dopo il flop commerciale del debut album “Red Hot Chili Peppers”, un disco che onestamente anche a livello artistico lasciava (e lascia) un po’ d’amaro in bocca, il gruppo di Kiedis e Flea si rimise subito al lavoro per costruire un nuovo album.
Come proseguire? La strada scelta dal gruppo fu quella del Funk.
Alla produzione del disco, al posto del britannico, ex-Gang of Four, Andy Gill, c’è un vero e proprio “padre del Funk”, vale a dire George Clinton, uno dei maggiori esponenti del genere negli anni ‘60-’70, nonché uno dei principali “mescolatori” di Rock e Funk, con i The Parliament prima e i Funkadelic poi. Insieme a lui arrivano a incidere l’album anche il trombonista Fred Wesley, il grande sassofonista Maceo Parker e il trombettista Benny Cowan, che compongono (insiema a Flea, che si diletta con una sua vecchia passione, la tromba) la sezione fiati su questo secondo episodio, intitolato “Freaky Styley”.

Oltre a questo, la band allontana il chitarrista Jack Sherman, che ha comunque contribuito alla stesura di gran parte dei brani di questo disco, e riprende con sé il vecchio amico Hillel Slovak, mentre alla batteria rimane Cliff Martinez: per il ritorno dell’altro “figliol prodigo” Jack Irons si dovrà aspettare l’inizio del 1986. Altro dato importante, la dipendenza, che iniziava a farsi sempre più pesante, di Hillel e Anthony dall’eroina, che porterà il gruppo a sfilacciarsi negli anni seguenti.
Cosa ne viene fuori? Freaky Styley, è, come suggerisce il titolo, un disco strano, generalmente dimenticato da tutti, ma dal grande appeal su chi apprezza i primi lavori dei peperoncini. E’ un disco molto spostato su lidi Funk (Parker e Wesley collaboravano con James Brown, tanto per fare il nome di uno sconosciuto...), e manca un po’ di quell’energia Punk che il gruppo ha nell’anima ma che non riesce a mostrare, se non in alcuni brani, quelli più selvaggi, come “Battleship” o “BlackEyed Blonde”. Non è quindi ancora il crossover a tutto tondo che caratterizzerà i dischi successivi, manca il metal, manca il punk, il baricentro è eccessivamente spostato verso lidi lenti e arrangiamenti studiati e poco viscerali. Ma, rispetto al precedente, il disco è bello, avvincente, sono presenti ottimi e buonissimi episodi, e il suono del disco è decisamente più caldo, anche se manca un poco di aggressività – Anthony stesso in futuro ammetterà che l’ambiente era talmente accogliente che il gruppo si rilassò forse eccessivamente: vi lascio immaginare cosa potesse venir fuori dall’unione di due tipi estroversi come lui e Flea mentre lavoravano con uno dei loro idoli, il già esuberante di suo George Clinton, nei suoi studios a Detroit...

L’accattivante ritmo tribale di basso e batteria [buona la prestazione percussiva di Cliff Martinez su questo brano] con cui si apre “Jungleman” ci farà compagnia per tutta la traccia, mentre Anthony segue con la voce i colpi di Martinez sulle sue pelli: il refrain ottimo e l’assolo “sentito” di Hillel (che liberazione, dopo la freddezza di Sherman!) sono i punti di forza dell’energetica opener.
Sul platter fanno anche bella mostra di sé due cover, “Hollywood” e “If You Want Me To Stay”. La prima è la rivisitazione di “Africa”, un pezzo dei The Meters, una band funk di New Orleans, mentre la seconda è la cover di un pezzo del repertorio di Sly Stone. E’ in questi due brani che l’apporto della sezione di fiati si fa fondamentale, e sono proprio loro, gli strumenti a fiato, i protagonisti nella funkeggiante “Hollywood”, mentre in “ If You Want Me To Stay” Anthony mostra una voce suadente, avvolgente, quasi soul, rinnegando gli sproloqui Rap che torneranno più avanti nell’album – ci tengo a precisare come entrambi i pezzi siano tra gli highlights del disco.
A dividerle, in terza posizione, c’è "American Ghost Dance", buona ma non eccezionale, con i fiati a rallentare forse troppo il già cadenzato ritmo, e uno Slovak un po’ in ombra che incide poco nelle sue parti.
Kiedis apre con un rap solitario la quinta “Nevermind”, caratterizzata di lì in poi da intermezzi di trombe a “annacquare” un poco l’altrimenti sporca voce di Anthony, che spara a zero su parecchi gruppi in voga all’epoca (Wham, Duran Duran, Men at Work, Culture Club tra gli altri... e chissà se quel “fregatene delle band inglesi-fregatene del synth funk” non sia una frecciatina al loro vecchio produttore Andy Gill, decisamente mal sopportato dai peperoncini).
La titletrack è una quasi-strumentale in cui il “rumorismo” chitarristico di Slovak ha il massimo spazio, mentre la successiva “Blackeyed Blonde” è uno dei migliori episodi per il suo approccio pazzo, veloce, in cui Anthony macina parole su parole, sostenuto dal basso di Flea, autore di una buonissima performance come sua abitudine. I versi scimmieschi di metà canzone preludono all’assolo strambo di Hillel, rendendo questa canzone una delle poche a portare con sé quella follia punk che manca altrove in questo disco, come accennavo ad inizio recensione.
Molto buona è anche l’ottava “The Brothers Cup”, con cui ci si riallinea al funk dei primi pezzi grazie agli arrangiamenti di Parker e Wesley in primo piano a dare tono alla canzone.

A questo punto si apre una fase un po’ transitoria dell’album: non c’è un pezzo, tra la nona e la tredicesima traccia, che arrivi ai due minuti: l’indole da “freaks” dei Peppers si realizza a pieno in questi brevi episodi, più o meno riusciti a seconda dei casi.
Tra i migliori troviamo la pazza “Battleship” e l’irruenta “Catholic School Girls Rule”; la prima è caratterizzata da solos stravaganti di Slovak e da furiosi attacchi hardcore, la seconda da un ritmo travolgente e da un chorus d’impatto, nonché da liriche ironiche e dissacranti sul puritanesimo delle scuole religiose americane.
Invece in “Sex Rap” e “Lovin and Touchin”, si pone forse troppo l’accento sull’argomento sessuale, cercando di shockare a tutti i costi l'ascoltatore: il cantato rappato e il ritmo sincopato di “Sex Rap” non arrivano alla genialità di “Catholic...” o “Battleship”, mentre “Lovin and Touchin” e lo scioglilingua di “Thirty Dirty Birds” sono episodi francamente inutili.
Molto più indovinata è invece la finale “Yertle the Turtle”, una live-favorite dell’epoca, con un bell’inizio Rap prima dell’irruzione dei fiati, che duettano con il sempre piacevole basso di Flea e la chitarra alienata di Slovak.

Freaky Styley
è un disco che passò piuttosto inosservato all’epoca, e che ancora oggi è abbastanza trascurato in favore di altri episodi; sicuramente è inferiore ai diretti successori, più aggressivi, concisi e riusciti, ma è un notevole miglioramento rispetto alle indecisioni del debut, e, soprattutto, ci mostra un lato davvero apprezzabile dei peperoncini losangelini, quello più Funk, componente che inizierà poco a poco a sbiadire, in favore di un personalissimo e seminale Crossover, che diverrà marchio di fabbrica per gli anni a venire.
Consigliato a chi apprezza il Funk/Soul e le sue contaminazioni con il Rock, e a chi apprezza la band – il loro marchio di fabbrica è sempre ben presenteper tutta la durata del disco, e non deluderà i fans di Kiedis & Co: per ascoltare i loro migliori lavori, tuttavia, bisognerà aspettare la fine degli anni ’80...

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