- Larry Baud - voce
- David Rosenthal - tastiera
- Tristan Avakian - chitarra
- Chuck Burgi - batteria
- Greg Smith - basso
1. Flyin' High (05:45)
2. I'll Be There (04:11)
3. Liar (03:23)
4. Dangerous Child (06:17)
5. Promises (05:36)
6. I Can't Get Over You (05:39)
7. Christine (04:05)
8. Take These Chains (05:02)
9. She's On Fire (05:23)
10. Never Say Surrender (04:51)
Never Say Surrender
Uno dei classici minori della scena Adult Oriented Rock, il debuttto, nonchè unico parto discografico, dei newyorkesi Red Dawn, rappresenta senz'ombra di dubbio il classico fenotipo del disco sottovalutato e denigrato dai media all'epoca che meriterebbe, almeno questo, di essere riascoltato e comparato con l'enorme quantità di platter più o meno validi che nell'ultimo periodo si accalcano con sempre più foga sulle pagine dei magazine nostrani, e dai quali si differisce sensibilmente per l'enorme mole di ottimi fraseggi in campo puramente musicale nonchè per il gusto compositivo messo in mostra da questo ensamble di cinque elementi. Uscito nell'anno di grazia 1994, ovvero quando tutto il mondo discografico sembrava essere attratto da ben altre sonorità e proposte artistiche, Never Say Surrender rappresentava, e forse rappresenta ancora, quanto di meglio una band dedita ad una riproposizione quasi pedissequa dei dettami melodici possa essere in grado di offrire fra le trame di un unico disco, ovvero una manciata di brani tecnicamente e strutturalmente ineccepibili, conditi da aperture melodiche veramente ad effetto, ritornelli irresistibili e refrain altamente ineccepibili, tutto condito dalla classe innata in possesso da questa vera e propria big band. Infatti i Red Dawn, formati attorno al talento artistico, musicale e compositivo del maestro dei tasti d'avorio David Rosenthal, famoso per il suo trascorso alla corte del man in black per eccellenza Ritchie Blackmore e dei suoi Rainbow, potevano contare sull'apporto di un manipolo di musicisti d'alto rango come il vocalist, ed ex Network, Larry Baud dotato di un timbro vocale caldo e suadente, del misconosciuto, ma tecnicamente eccelso, guitar hero Tristan Avakian, nonchè dell'apporto ritmico della coppia Chuck Burgi e Greg Smith, entrambi musicisti dai trascorsi in band come Zeno, Joe Lynn Turner e chi più ne ha, più ne metta.
Il risultato di questo fortunato sodalizio è un platter fantastico che racchiude in ben dieci episodi, influenze musicali che vanno dall'hard rock virtuosistico e tecnico dei Van Halen, al pomp rock dei Giuffria, Prophet e House of Lord, alle propensioni class metal a stelle e strisce dei vari Dokken, Ratt e Lion, per un risultato finale pregno di vitalità emotiva, e pura magia compositiva Il trittico iniziale con cui la band si presenta al suo pubblico è veramente da infarto: infatti a partire dall'opener Flyin' High, la band ci offre tutto il meglio del proprio repertorio rendendoci partecipi di un assalto sonoro perpetrato sulle note infuocate di una chitarra graffiante lanciata su scale armoniche e guitar lick memori dei migliori maestri d'ascia della decade passata, tastiere suadenti e sempre più presenti che tessono ricami ritmici di gusto, ed una voce possente, roca al punto giusto ed in grado pur sempre di ritagliarsi una posizione di rilievo all'interno di un songwraiting ispirato come non mai, e che fa di brani come la seguente I'll Be There che, pur presentando una partenza più prettamente soffusa fra arpeggi tipici di Journey/Bad Company, si inalbera attorno ad un crescendo emozionante, poi esplodere in tutta la sua fragorosa potenza attorno al bridge centrale, e dell'incalzante Liar, class metal metal puro ed incontaminato caratterizzato da un chorus trascinante ed orecchiabile e da un'insieme di solos vorticosi, un perfetto vademecum per ogni melodic rocker degno di questo appellativo. Con uno start al cardiopalma di questo calibro, il resto del disco potrebbe benissimo perdere mordente ed interesse, ed invece prima la più quadrata e lineare I Can't Get Over You, che ci presenta una band alle prese con innumerevoli digressione melodic rock di stampo svedese (Stage Dolls meets Treat), e poi l'adrenalinica She's On Fire, dal ritmo vagamente progressivo, restituiscono credibilità alla band che infoltisce il proprio spettro sonoro grazie a continue iniezioni continue in campo prettamente pomp rock, così che, sia il mid tempo di Christine che la ballad strappalacrime Take These Chains, davvero emozionante, avvicinano sensibilmente i Red Dawn ai seminali Survivor, Journey, Foreigner e Bad Company. Un disco di una maturità disarmante registrato da una grande band che, come la storia ci insegna, si sfalderà in mille altri progetti musicali senza senso, lasciandoci il rimpianto di pensare a quello che poteva essere, e che invece non è stato.