Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Paolo Bellipanni
Genere: 
Etichetta: 
Kranky
Anno: 
2011
Line-Up: 

- Tim Hecker - programming, musiche

Tracklist: 

1. The Piano Drop
2. In The Fog I
3. InTthe Fog II
4. In The Fog III
5. No Drums
6. Hatred Of Music I
7. Hatred Of Music II
8. Analog Paralysis, 1978
9. Studio Suicide
10. In The Air I
11. In The Air II
12. In The Air III

Tim Hecker

Ravedeath, 1972

Una foto in bianco e nero, risalente al 1972, ritraente gli studenti del MIT (Massachusetts Institute of Technology) gettare un pianoforte dal tetto di un dormitorio universitario, l'ormai celeberrima Baker House. Un'immagine estremamente suggestiva che in sè raccoglie lo spirito di un'epoca a stelle e strisce e quello di un'intera opera musicale. Tim Hecker segue il viaggio di quel pianoforte e ne studia il movimento e la caduta, sondando il suo corpo fendere l'aria, gridare un ultimo, disperato lamento e impattare infine col suolo. Ravedeath, 1972 parte da quell'azione pseudo-riottosa e iconica e finisce per allargarsi all'intero pensiero umano: atto di liberazione e volontà distruttrice insieme, coadiuvati nella stessa immagine nel suo significato. Elementi che nell'album di Hecker si trasformano in un oscillare disperato tra la volontà di annullarsi e quella di resistere, tra il desiderio di liberarsi e quello di decomporre la realtà.

Ravedeath, 1972 è probabilmente la confessione più profonda, vibrante e di rottura dell'artista canadese, tornato a due anni dal (sicuramente meno ispirato) An Imaginary Country e riemerso in superficie con un bagaglio espressivo assolutamente devastante. Un disco che tocca corde in passato solo sfiorate, che dipinge atmosfere irreali eppure così maledettamente vicine al cuore. In poche parole, Tim Hecker sputa fuori dagli antri più nascosti del proprio essere tutto ciò che non era riuscito ad esprimere nell'ultimo lustro, raggiungendo un'alchimia musicale e atmosferica ai limiti della perfezione e della catarsi emotiva.

Tutto parte dall'ormai storica cerimonia studentesca del MIT, per l'appunto chiamata The Piano Drop: issato sul cornicione del tetto, il pianoforte è pronto a cadere e ad iniziare la propria discesa silenziosa verso il suolo. L'aria è tesa e scossa dal respiro dello strumento, qui tradotto da Hecker in una distesa di sintetizzatori pulsanti e onirici. Poi, appena il contatto con la materia si perde, la nebbia comincia ad avvolgere ogni angolo della realtà. La visione è commovente ed esplorata in tutta la sua intima drammaticità: suddivisa in tre spezzoni separati, In The Fog apre Ravendeath, 1972 verso i suoi frangenti più sottili ed eterei, all'interno dei quali il rumore (splendidamente orchestrato da Hecker nel proprio percorso drammatico-atmosferico) si fa pian piano avanti, finendo per avvolgere quasi del tutto la fluttuante massa sintetica. E se No Drums riporta l'album nel suo nido più intimo e liquido, Hatred Of Music è la risalita dal sottosuolo di uno spleen finora sconosciuto e maestosamente tragico.  Suddivisa in due parti singole, la seconda suite si innalza come testamento spirituale di Hecker, raccogliendo in sè tutto ciò che il musicista canadese ha sperimentato negli anni: cupi, angoscianti ma dannatamente intensi, i due frammenti di Hatred Of Music appesantiscono le leggiadre costruzioni elettroniche precedenti di distorsioni, effetti ultraterreni e di un'inquietudine a dir poco ipnotica (evocata nella sua forma più totale dal drone chitarristico della prima sezione).

Tra lacerazione e apparente pace atmosferica (Analog Paralysis e Studio Suicide, episodi decisamente più sottotono), l'alchimia ambientale di Tim Hecker si raccoglie nuovamente in un'altra suite, questa volta posta a conclusione del percorso discendente (ovviamente in senso metaforico) di Ravendeath, 1972. In The Air - anch'essa spezzata in tre parti singole - è il rinnovarsi finale del lento oscillare heckeriano tra liberazione e distruzione: anche in questo caso, i flussi elettronici vengono regolarmente arricchiti da tessuti di distorsioni alienanti e timbricamente densissime, iniettate nel tappeto ambientale di fondo con impeccabile tempismo e gusto evocativo. Il pianoforte, divorato dall'aria e della nebbia e svuotato di tutte le sue naturali caratteristiche timbriche, si appresta a terminare il proprio ultimo canto sul terreno. La sua discesa e il suo impatto sono silenziosi ed emettono un lamento appena percettibile.

Un'unica parola rimane da pronunciare, una parola che l'Hecker di Ravendeath, 1972 ha tradotto in cinquanta, commoventi minuti di musica altra. Quella parola è poesia, e non poteva essere altrimenti.

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