Alan Averill "Nemtheanga" - Voce
Ciaran MacUiliam - Chitarra
Michael O'Floinn - Chitarra
Pol "Paul" MacAmlaigh - Basso
Simon O'Laoghaire - Batteria
1. Where Great Men Have Fallen
2. Babel's Tower
3. Come The Flood
4. The Seed of Tyrants
5. Ghosts of the Charnel House
6. The Alchemist´s Head
7. Born to Night
8. Wield Lightning to Split the Sun
Where Greater Men Have Fallen
Ne è passata di acqua sotto i ponti.
Già a partire dai paesaggi evocativi e chiaroscurali di “The Gathering Wilderness”, i Primordial hanno intrapreso un cammino estremamente personale, che si distanziava sempre più dalle sue origini black metal verso un suono simile alla forma vivente di uno spirito guerriero profuso dal loro sangue celtico. “Imrama” e “Journey’s End” ormai sono un lontano ricordo, mentre quei semi che “Spirit The Earth Aflame” aveva sparpagliato iniziavano ormai a crescere e a germogliare senza più fermarsi.
Sempre più passionali, sempre più epici, sempre più inimitabili. Ma soprattutto, sempre più veri. Il 2007 fu l’anno d’oro, con quel “To The Nameless Dead” che si ergeva fiero ad emblema della loro nuova personalità e summa di un certo modo di intendere il metal e di una intera filosofia sul senso della guerra, del sacrificio, del concetto di “morire per il proprio Paese”. Il “morto senza nome” era colui che si immolava per una patria che lo inviava al massacro, senza che nessuna generazione risorta dalle sue ceneri potesse ricordarsi il suo nome, il suo viso, i suoi sogni, le sue speranze. La gloria è solo un’illusione e questo i Primordial ce lo fecero capire con canzoni impregnate di dolore e di un’epicità struggente, con chitarre che mettevano a tacere la retorica patriottarda di tante metal band che si fingono battagliere ma che non si sono mai davvero fermate a riflette sul vero significato della morte, fosse anche di una sola persona. E il successivo bellissimo album “Redemption At The Puritan’s Hand” non fece che proseguire su questa strada, leccando le ferite del disco precedente attraverso un ritorno alla terra e al più autentico folklore celtico.
Adesso, riposte le cuffie dopo l’ascolto di “Where Greater Men Fallen”, sembra quasi che quel ciclo iniziato nel lontano 2005 (anno di pubblicazione di “To The Gathering Wilderness”) si sia chiuso per sempre. Il nuovo lavoro dei cinque di Dublino è quello che potremmo definire il più “drammatico” della loro carriera. Non che prima la drammaticità non fosse presente, e basterebbe far riferimento al basso mortifero e agli scenari di assoluta desolazione di Gallows Hymn per ricordarlo; ma se un disco come “To The Nameless Dead” era anch’esso, a suo modo, “drammatico”, si trattava di un elemento che non avrebbe mai perso di vista la speranza in un futuro diverso, la convinzione che è possibile risalire dal fango, la ricerca di un senso in mezzo alla miseria.
Tutto questo è assente, ora. Le canzoni del nuovo album rimandano a sentimenti di sconfitta e rassegnazione, come se tutte le energie si fossero esaurite negli album precedenti e non fossero rimaste più lacrime da versare. La battaglia è finita e non conta se il nemico ha vinto o ha perso, ciò che conta è che quei valori in cui ancora speravamo sono sprofondati con noi nella fine del mondo, nell’abisso dell’assurdo. La band non può fare altro che ritirarsi e meditare in solitudine.
Where Greater Men Have Fallen, saggiamente scelta come opener del platter, è una chiara dichiarazione di intenti in tal senso, non fa prigionieri e non lesina sentimenti di rabbia e frustrazione, in una cavalcata in cui Alan Averill sembra buttare su nastro non tanto la sua voce quanto la sua stessa anima. Eppure, paradossalmente, è proprio la title-track a risultare il brano più "tradizionale" rispetto agli altri, con la sua classica struttura di strofa e ritornello che punta tutto sulla magnificenza delle chitarre e su riff che rimandano a sensazioni di eroica sofferenza.
Babel’s Tower, però, cambia completamente registro. Si rimane stupiti dall’iniziale arpeggio distorto, in cui sembra persino di cogliere le influenze di un certo swedish black metal figlio di Watain e Marduk, che pian piano si attenuta in una ballata ovattata e avvolgente. Risulta chiaro come i Primordial, adesso, abbiano deciso di mettere un po’ da parte le loro influenze più celtiche, per avvinarsi non solo al black quanto soprattutto al doom metal, con ritmi più pacati e atmosfere decadenti che in certi frangenti sembrano richiamare la sensibilità dei My Dying Bride. L’immagine di un uomo che si ritrova di fronte alla desolazione di un mondo ormai in declino è il tema portante del brano, perfettamente rappresentato dall’oscuro videoclip diretto da Gareth Averill.
Ma se i primi due brani ci hanno già ammaliato a puntino, è con la successiva Come The Flood che l’album spicca il volo in modo definitivo. A parere di chi scrive, si tratta della traccia migliore del disco, l’espressione più alta di quel sentimento di rassegnazione a cui, tuttavia, sembra che la voce di Alan non voglia arrendersi. Già solo l’intro affascina, prima di gettarci in atmosfere dove si respira molto più doom rispetto al passato. Averill si mostra così il più significativo cantastorie di questa nuova decadenza, mentre le chitarre sorreggono ritmiche cadenzate e oscure, che si trascinano inesorabili verso un finale da pelle d’oca, fatto di sangue, lacrime e pura emotività.
The Seed of Tyrants e Ghosts Of The Charnel House si rivelano francamente i brani meno ispirati del platter, ma pur sempre molto interessanti nella loro carica innovativa: la prima traccia è un chiaro ritorno alle origini più prettamente black metal che ormai sembravano dimenticate, con un furioso Simon O’ Laoghaire che mai aveva sfruttato così a fondo il doppio pedale; la seconda traccia imbastisce un riffing forse un po’ troppo stiracchiato e convenzionale, ma non per questo meno energico ed esaltante; ammirevoli comunque gli arpeggi finali intrecciati con il basso che riescono ad infatuare con la loro seducente pacatezza, anche strizzando leggermente l’occhio al post rock.
The Alchemist’s Head è indubbiamente uno dei brani più sperimentali che i Primordial abbiano mai composto; tendente anch’esso al black metal, particolarmente dissonante (soprattutto negli atmosferici riff che anticipano la fine) e sostenuto da ritmiche spezzate, si incastra perfettamente con lo screaming di Averill, mai così maligno nella tipica espressività che lo contraddistingue. Non si tratta certo di un brano facile da ascoltare, ed è più che probabile che qualche fan di vecchia data possa rimanerne spiazzato. In ogni caso, l’esperimento pare ben riuscito e per quanto il brano possa stonare nel contesto epico/drammatico dell’intero album, è da ammirare il coraggio con cui la band è riuscita a provare qualcosa di diverso e nuovo senza spostare di un millimetro quella personalità che l’ha resa unica.
La lunga e ispirata introduzione di Born To Night, di oltre tre minuti, stende un velo di arcana meditazione, come un cielo plumbeo che anticipa la tempesta, prima che uno dei migliori riff degli ultimi Primordial faccia il suo ingresso in campo. Chitarre mai così rocciose e decise gettano l’ascoltatore nell’headbanging più sfrenato, e quando Averill irrompe sulla scena lo vediamo subito prendere in mano le redini di un doom metal nordico, in parte memore dei sempre splendenti Candlemass, che invita chi lo accoglie a sognare ad occhi aperti.
Degna conclusione di questo viaggio ai confini dell’anima, Wield Lightning To Split The Sun emana odore di leggenda celtica da tutti i pori, avanzando in ritmi cadenzati e in echi lontani sperduti nel bosco, con un lirismo malinconico che sembra il canto di antichi guerrieri irlandesi in ricordo dei propri compagni morti in battaglia.
Certo, evitare il confronto con il passato è di fatto impossibile. Ma questo non è un male, anzi. Ci permette di comprendere come “Where Greater Men Have Fallen” rappresenti una naturale prosecuzione, non solo del suono ma soprattutto dell’anima dei cinque irlandesi, che forse sarà diventata più cupa e malinconica ma proprio per questo permette di riscaldare meglio le emozioni di chi sa ascoltarla. E se qualcuno alzerà il dito al cielo, pronto come al solito ad affermare che “To The Nameless Dead" era meglio, non sarà difficile zittirlo affermando che non è possibile migliorare la perfezione. Del resto, non era un disco “migliore” che ci aspettavamo dai Primordial; quello che volevamo era un disco bellissimo come sempre, nuovo, diverso, che continuasse quell’epico cammino di autenticità fatto di melodie sognanti e di sentimenti puri. Lo abbiamo avuto.
Finite le danze, se da un lato non possiamo affermare che “Where The Greater Men Have Fallen” sia un vero e proprio capolavoro, dall’altro non possiamo nemmeno negare che si tratti di un altro meraviglioso disco di una band che ormai è un’assoluta garanzia di qualità, passione ed emozioni sincere, degno stendardo di un’isola che non dimenticherà mai le sue radici e di un metal suonato prima con il cuore e poi con voce e strumenti. E scusate se è poco.
Chapeau.