- John Baldwin Gourley - voce, chitarra, organo
- Jason Sechrist - batteria e percussioni
- Ryan Neighbors - piano, organo, synth, voce
- Zachary Scott Carothers - basso, percussioni, voce
- Zoe Manville - voce, moog synth (live)
1. The Dead Dog
2. Break
3. 60 Years
4. All My People
5. 1000 Years
6. Fantastic Pace
7. The Pushers Party
8. Do What We Do
9. Just a Fool
10. When the War Ends
American Ghetto
Evidentemente per i Portugal. The Man comporre dischi equivale ad un gioco. Un gioco divertente, scanzonato, quasi disinteressato, nel quale rigettare con la più pura delle sincerità il proprio mondo fantastico. A meno di un anno dal precedente, bellissimo The Satanic Satanist la band dell'Alaska (da tempo però stabilitasi in quel di Portland) spiaccica sulle facce incredule di fan e detrattori un nuovo full-lenght, dimostrando che la loro è veramente una malattia insanabile, una stravagante pulsione interiore che quasi li costringe a sfornare album su album, uno dopo l'altro, senza sosta. Dal 2006 - anno di formazione del progetto - ad oggi sono infatti ben sei i dischi pubblicati dai Portugal. The Man: una sfilza di piccoli gioielli iniziata con Waiter: "You Vultures!" e splendidamente portata avanti da Church Mouth, dal capolavoro Censored Colors, dalla fantastica psichedelia di The Satanic Satanist e dal suo fratello minore The Majestic Majesty (nient'altro che una rielaborazione in chiave acustica dei brani dell'ultimo full-lenght). American Ghetto prende vita ad inizio 2010 con l'obiettivo di far proseguire brillantemente la carriera - finora impeccabile - del complesso d'oltreoceano. Dopo le meraviglie che ci avevano fatto vedere nelle precedenti pubblicazioni, sarebbe sembrato scontato per tutti un nuovo capolavoro; una questione meramente di fiducia, di fidarsi ad occhi chiusi di un progetto infallibile che però, dopo quattro anni, pare aver fatto per la prima volta un piccolo crac.
Fermo restando che un disco discreto dei Portugal. The Man corrisponde ad un disco buonissimo di qualsiasi altro gruppo medio pop-rock alternativo, American Ghetto mostra per la prima volta il complesso dell'Alaska in una forma non proprio smagliante, svelandone per certi tratti anche un'insolita stanchezza compositiva.
Il salto da The Satanic Satanist è repentino e netto, un distacco che azzera (anche se non del tutto) la fascinosa psichedelia sessantiana del precedente full-lenght e che riavvicina i Portugal alle raffinatezze pop di Church Mouth. A compiersi è insomma una sorta di fusione, di assemblaggio tra la spensieratezza melodica dell'ultimo album e le forme più pulite e lucide degli esordi, sebbene qui privi della loro matrice più ricercata e sperimentale. American Ghetto risulta quindi essere l'album più semplice e fruibile dell'intera discografia del progetto, ma non è in quest'aspetto che si rintraccia la sua minor bellezza: gli arrangiamenti sono come al solito eleganti, la produzione leggiadra, i suoni smaglianti e avvolgenti, eppure l'atmosfera di fondo del disco sembra molto più sottile, quasi scarnificata delle splendide sperimentazioni 'soft' dei precedenti album.
Privo delle inquietudini, delle ipnosi psichedeliche e delle più sofisticate discese melodiche del passato, American Ghetto si crogiola in un pop-rock lieve, semplice e disimpegnato, sciorinando la solita festa carnevalesca di melodie giocose e atmosfere d'altri tempi. Nonostante, come già detto, il disco sia decisamente meno ricco di sfumature, meno denso e affascinante di un Censored Colors o di un Church Mouth, di pezzi da capogiro ce ne sono e quando All My People sopraggiunge col suo passo tenue e trascinante, resistere è quasi impossibile: tra sottili eco, voci trasognate, ritmi cadenzati e un ritornello settantiano semplicemente irresistibile, All My People risveglia di botto il mondo retrò dei Portugal. The Man, ponendosi peraltro come una delle loro migliori canzoni. Il problema è che in American Ghetto di altri pezzi in grado di mantenere realmente il passo della sopracitata non ve ne sono, e il tutto si limita ad un semplice oscillare tra canzoni divertenti e ben suonate e altri episodi decisamente sottotono, deboli e tutt'altro che emotivamente incisivi. Così da una parte i refrain di 1000 Years e The Dead Dog, gli splendidi frammenti effettati di Do What We Do e le più sotterranee atmosfere di Fantastic Pace si scontrano sommessamente con l'irritante luminosità di When The War Ends, le scialbe soluzioni di Some Men (brano che più di tutti, pur malriuscendoci, richiama il mood e l'impostazione di Censored Colors) e con le piatte invenzioni strumentali di The Pushers Party e Just a Fool, lasciando American Ghetto sospeso in questo perenne oscillare tra hit irresistibili e improvvisi passi falsi, tra lucide novità compositive e falsificazioni delle originali trovate del passato.
American Ghetto è semplicemente il normale calo di condizione di un gruppo che per quattro anni ha viaggiato a livelli altissimi, inimmaginabili per qualsiasi altro progetto rock. Dopo una sfilza di gioielli come quella dei Portugal. The Man, un lieve rallentamento può anche starci, fermo restando che - pur risultando l'album meno convincente del combo d'oltreoceano - American Ghetto diverte e si lascia ascoltare nella maniera più immediata.