- Black Francis - voce, chitarra
- Kim Deal - basso, voce
- David Lovering - batteria
- Joey Santiago - chitarra
1. Bone Machine
2. Break My Body
3. Something Against you
4. Broken Face
5. Gigantic
6. River Euphrates
7. Where Is My Mind
8. Cactus
9. Tony’s Theme
10. Oh My Golly!
11. Vamos
12. I’m Amazed
13. Brick Is Red
14. Caribou
Surfer Rosa
Nel marzo del 1988, pochi si sarebbero aspettati l’arrivo di un disco così sporco, crudo e vero ma allo stesso tempo così dolce e umano come fu, e come risulta essere tuttora, Surfer Rosa.
Della band avvolta ormai di echi di quasi-idolatria che diede luce a questa raccolta di disagio suburbano fuso nella più pura delle formule pop, sarebbe inutile parlare, sarebbe superfluo ricordare l’importanza di ciò che i Pixies seminarono in una (molto probabilmente ) irriproponibile alba musicale di quiete prima della tempesta.
Infatti, la scintilla che diede vita al falò dei sogni per la scalciante e amabilmente contradditoria Generazione X, fu inequivocabilmente e senza alcun dubbio, Surfer Rosa.
Leggenda vuole che Il cavaliere del rumore anche conosciuto come Steve Albini si ritrovò invitato a casa di David Lovering per una sorta di cena di benvenuto alla quale parteciparono tutti i componenti dei Pixies, poco tempo prima dell’inizio delle registrazioni. Un’utile occasione per la band di capire quanto e come l’arruolamento del nuovo produttore avrebbe contribuito alla costruzione di ciò che fino ad allora nuotava tra gli emisferi asimmetrici di Black Francis e compagni. Dopo aver instaurato convenzionali ma utili rapporti di pseudo amicizia ed aver chiarito alcuni importanti punti fermi del suond ricercato dalla band, venne spinto finalmente il tasto Rec in sala d’incisione.
Ed è la batteria di Lovering ad inaugurare la tracklist, batteria dal particolare suono ottenuto da Steve Albini che verrà imitata e campionata in futuro, che con il suo incedere fermo introduce Bone Machine, canzone che abbraccia tutte le caratteristiche che faranno la fortuna dei Pixies: giro di quattro accordi ripetuto per tre minuti circa, brevi stacchetti di voce, basso dal suono corposo cucito alla chitarra, dissonanze distorte e voce stridula. Benché non sia la migliore canzone della band, risulta comunque essere un inizio molto esplicativo e, a modo suo, orecchiabile.
La successiva Break My Bones gravita più o meno sugli stessi livelli, anche se gode di un ritornello più carico, e soprattutto di una chitarra solista monotona per gran parte della canzone, caratteristica che chi ascolta i Pixies imparerà (o sarà costretto) ad amare.
Con la terza traccia, Something Against You, la temperatura inizia ad alzarsi pericolosamente e la spaventosa voce di Francis filtrata attraverso un ampli per chitarra da 10 Watt ci farà strada lungo questo turbine dissonante di rabbia punk sanguigna, dove la chitarra-motosega di Joey Santiago torna a sferragliare su di una sola nota, mentre il giro di chitarra acustica sottostante sembra suonato da un vecchio vinile deformato dal calore.
Ma è con Broken Face che si entra nel corpo del disco, i testi macabri e ironici allo stesso tempo iniziano a legarsi in modo meravigliosamente contrastante con la genuinità delle melodie, e la voce si fa sempre più acuta e mutevole, come il marchio Pixies impone. Gli squittii in falsetto si aprono su di un tappeto di chitarre distorte, la batteria cavalcante del ritornello si spezza nella strofa, e l’alternanza piano-forte-piano inizia minacciosamente a mietere le prime, adolescenziali vittime.
Il quinto episodio è finalmente la splendida Gigantic, scritta dalla bassista Kim Deal. E’ da questa canzone che i Nirvana copiarono spudoratamente la formula che contribuì senza dubbio al successo di Nevermind. Lungo una solitaria linea di basso che si arrampica ad una melodia talmente cantabile che poco tempo fa avrebbe potuto, opportunamente velocizzata, spuntare in una canzone dei Blink 182, striscia la voce sensuale della bassista che recita, come tradizione vuole, un testo apparentemente romantico, ma anche grottesco e surreale. Le chitarre entrano solo nel bridge con flussi incrociati di feedback, e la batteria si gonfia per irrompere nel ritornello, costruito sulla stessa linea di basso delle strofe , sormontata questa volta dalle chitarre elettriche spiegate e dai cori acuti di Black Francis. E la formula per la perfetta canzone Pop è servita.
Dopo la vagamente angosciante ma feroce River Euphrates, si giunge alla perla, il classico, la ballatona che se suonata dal gruppo di moda sfonderebbe al Festivalbar creando l’irrinunciabile Karaoke da stadio: Where Is My Mind?
Le cover registrate e/o eseguite di questa canzone non si contano neppure, il solito giro di 4 accordi 4 del leader, sempre diverso ma sempre fradicio di un suo riconoscibilissimo stile, si lascia accompagnare da un arpeggio di 2 note 2, che sembra inciampare passo dopo passo verso il ritornello, mentre Francis chiede esausto dove sia la sua mente. Questa è la classica canzone che si arriva ad ascoltare decine e decine di volte, cercando inutilmente di afferrare la magia che la tiene insieme e che la rende così intima, che la fa sentire così “propria” all’ascoltatore. E mentre la melodia muore, rimane solo l’ululato di Kim Deal, registrato nei bagni degli studios per ottenere il “vero” eco, e non utilizzare uno sterile filtro del computer. Altra chicca firmata Albini.
Segue Cactus, dalle atmosfere effettivamente desertiche e solitarie, e Tony’s Theme, che suona quasi come il tema di un supereroe underground, pezzo carico e sostenuto dalla batteria e dalla chitarra solista, il tutto concentrato in 1 minuto e 40 secondi. Con Oh, My Golly!, spunta lo spanglish che sembra rendere la canzone ancora più vibrante e incontrollabile, riproponendosi immediatamente per la successiva Vamos, pezzo saltellante e infestato di riferimenti spagnoleggianti che ospita nella parte centrale una rumorosa improvvisazione di Joey Santiago, conclusa sbatacchiando a terra il suo ampli per chitarra. Ci conducono verso la fine I’m Amazed e Brick is Red, la prima rancida e veloce, la seconda lo-fi e torrida con una chitarra solista che ricorda gli Strokes.
A Caribou si deve il compito di calare il sipario, Francis ricama una canzone nostalgica ma energica che sembra cantata da un vagabondo perso per le strade di Boston, ma come al solito arriva il suo urlo crapitante a ricordarci che è pur sempre una canzone dei Pixies.
Inutile spendere altro tempo e altre parole: Surfer Rosa è un must have per qualsiasi appassionato di musica Rock e dintorni. E’ inoltre un disco fondamentale per capire che il genio compositivo alla base del successo di Nirvana e diversi altri gruppi alternativi non viene dal nulla.
I Pixies inventarono letteralmente un genere, che con il successivo Doolittle è stato ulteriormente esplorato.
Insomma, Surfer Rosa merita di essere ascoltato con attenzione almeno una volta nella vita, perché tralasciando il fatto che possiate odiare a pelle il gruppo e il tipo di suoni da loro ricercati, le melodie, il cuore delle canzoni, sono quanto di più puro potrete ascoltare del panorama Rock moderno.