- Mikael Åkerfeldt - voce, chitarra
- Peter Lindgren - chitarra
- Martin Mendez - basso
- Martin Lopez - batteria, percussioni
Guest:
- Per Wiberg - tastiera, cori
1. Windowpane (07:44)
2. In My Time Of Need (05:50)
3. Death Whispered A Lullaby (05:49)
4. Closure (05:16)
5. Hope Leaves (04:30)
6. To Rid The Disease (06:21)
7. Ending Credits (03:40)
8. Weakness (04:09)
Damnation
Dopo l’uscita di Blackwater Park, il quartetto svedese, continuando sulla scia dei pezzi scritti per la pubblicazione del 2001, dà vita ad un buon numero di nuovi brani, dalle caratteristiche molto diverse gli uni dagli altri, raggruppabili in due sezioni separate. Nel 2002 lo splendido Deliverance racchiude le sonorità più aggressive e impetuose plasmate dalle menti di Åkerfeldt e compagni, mentre nel 2003 il seguito, Damnation, raffigura l’alone più elegante e posato della band, quello votato a sonorità completamente Progressive Rock, che riuniscono sotto il loro stile la tradizione settantiana dei Camel con il tipico sound mesto e decadente espresso dagli Opeth sin dagli esordi.
Otto capitoli oscuri e delicati al tempo stesso, un’atmosfera inquietante che giunge dal profondo dell’anima per poi emergere nell’approccio delle chitarre acustiche, una batteria jazz che raffigura qualcosa di più di un semplice accompagnamento, melodie strazianti e lontane, cariche di un sapore arcano e antico: tutti questi elementi, sovrapponendosi ed intrecciandosi nella spirale d’edera, simbolo degli Opeth, producono Damnation, raffinato lavoro all’insegna dell’acustica e delle tastiere atmosferiche, suonate per l’occasione dall’ospite Per Wiberg degli Spiritual Beggars.
Tali inserimenti degli archi di sottofondo riempiono l’architettura timbrica di tutti i brani, mentre le variazioni dei temi di base proseguono guidate dalla suadente voce di Mikael, una delizia composta e perfetta nel legarsi alle sezioni strumentali.
Le idee e la sperimentazione non mancano sicuramente alla band, sia nelle parti ritmiche descritte dalla coppia Mendez-Lopez, geniale ed innovativa nelle linee di basso e batteria, sia nei temi congegnati da Åkerfeldt e Lindrgen alle chitarre, spesso di matrice Cameliana (come già lo furono Benighted su Still Life e Harvest su Blackwater Park) e a volte diretti verso soluzioni orientaleggianti.
Tutti gli otto episodi sono perle da gustare con attenzione, canzoni che sanno cullare, far sognare, appassionare e riflettere: Windowpane nei suoi otto minuti di durata trasporta con i costanti arpeggi e con le aperture sonore impresse dalla tastiera, mentre un ottimo Lopez adotta un tocco di classe alla batteria, dimostrandosi batterista completo ed esperto; se In my Time of Need strugge nel profondo attraverso i giochi di voci e il susseguirsi di deliziosi cori, la terza Death Whispered a Lullaby mostra nuovamente il lato più angosciante e buio di Damnation, poiché costituisce una sostenuta ninna-nanna di dolore che rimane impressa nella mente dell’ascoltatore.
Anche Closure è una traccia particolarissima, forse la più connessa al progressive Rock degli anni ’70, con il suo strano e inatteso sviluppo verso ballata orientale, una trasformazione repentina che coinvolge e strega nel riff disegnato dalle chitarre e dalla tastiera e nell’accompagnamento ritmico ideato da Lopez alle percussioni.
Colma di depressione e perdita interiore è Hope Leaves: i colori grigi che impregnano la composizione fanno emergere degli arpeggi commoventi e delle parti atmosferiche da brivido, che consacrano questo quinto pezzo come il migliore dell’opera. To Rid the Disease invece rimane più chiusa in se stessa per spiegare le sue sonorità nella parte centrale, con un assolo spontaneo e tornare poi tenebrosa con una monotona danza di pianoforte. Per chiudere l’album, ecco intervenire la strumentale Ending Credits, che riporta un po’ di luce nel paesaggio smarrito di Damnation, e Weakness che forse stona leggermente, andando ad esplorare meandri sperimentali ancora più dimenticati, quali influenze da King Crimson e Goblin.
Gli Opeth hanno da sempre dimostrato di possedere qualità fuori dal comune in fase di song-writing e Damnation ne è l’ulteriore conferma: introspettivo capitolo discografico che si differenzia dal resto della produzione precedente, questo album del 2003 ha qualcosa di speciale che lo rende unico nel suo genere. Moderno unito al vecchio, colorato legato a sbiadito, ma sempre all’insegna della riflessione e della ricerca interiore: lo stile cambia ma i musicisti sono sempre gli stessi, gli Opeth.