- Gianluca Peluso - voce
- Massimo Peluso - chitarra
- Panfilo Carracini - chitarra
- Davide Rosati - basso
- Gianluca Orsini - batteria
Guest:
- Giulio Fonti - violino nel brano 5 e 8
- Francesca Salvatori - voce nel brano 5
1. Intro
2. Vision of Irrationality
3. Lethe
4. ... a Black Frame
5. Anxious Sensations
6. Escaping from the Indifference
7. The Lady With the Scale
8. The Strange Thing in the Tunnel
9. Dagon
Vision of Irrationality
Ciò che i raianesi (sobborgo di Sulmona, AQ) No More Fear (da non confondere con l'omonimo gruppo hardcore di Busto Arsizio) tentano di fare con questo Vision of Irrationality, loro esordio dopo qualche anno di gavetta, sembra essere la solita, arcinota storia: emulare la musica che si ama e offrire una proposta che cerchi di essere altrettanto esaltante.
Ora, prendendo quest'album per quello che è, al di là di una produzione davvero pessima (ma giustificabile, non tutti hanno gli Studio Fredman a disposizione, soprattutto i gruppi emergenti di piccole città) scopriamo un dischetto roccioso, con diversi riff interessanti, songwriting martellante e micidiale, melodie che riescono ad inserirsi nella durezza delle sonorità estreme del gruppo. Melodie che non snaturano l'essenza estrema del disco, ma che sanno esprimersi in maniera concreta. Insomma, sembra esserci un buon potenziale, e probabilmente se VoI fosse uscito quasi un decennio prima avrebbe avuto un largo seguito nell'ambiente death. I problemi iniziano a sorgere quando ci si accorge che il tutto è ben più che derivativo, un riciclo di stilemi ripresi di pari passo dal melodic death metal svedese di inizio anni '90 e dal death metal floridiano che susciterebbe l'ammirazione di Green Peace. Gli elementi presi dagli abruzzesi sono abbastanza unidirezionali, e i riferimenti più diretti sono fin troppo lampanti: in primis andrebbero sicuramente menzionati i Carcass di Necroticism, i Dark Tranquillity di The Mind's I, volendo anche i Death, in particolare con Leprosy e la sua velocità brutale ma tecnica, e gli Hypocrisy di Penetralia. Dopo di questi si potrebbe andare più sul generale, e menzionare ancora Ceremonial Oath, Morbid Angel, Malevolent Creation, Unanimated, primi At The Gates, i Dark Tranquillity di Skydancer per un tocco di relativa finezza in più ecc. ma ormai si è resa l'idea. L'ormai consueto caso di "emulazione eccessiva", sfiociante in una mera ripetizione degli stessi precisi stilemi che ha come risultato un lavoro non solo impersonale e privo di qualsiasi minimo barlume di originalità, ma proprio fotocopiato. Completiamo con un canto growlato poco incisivo, fattore che in verità rimane abbastanza in disparte, anche perché sono molto peggiori sporadici interventi in screaming messi qui e lì in un goffo tentativo di imitare gli "ispiratori" (termine riduttivo) del gruppo.
L'album vero e proprio, dopo un'intro un po' inutile, incomincia con la title track Vision of Irrationality, che riassume gran parte dei pregi e difetti del full-lenght. Non molto memorabile in realtà come pezzo, i riff di chitarra sono veloci e graffianti, ma la batteria è quasi assente se non per i piatti, mentre stendiamo un velo pietoso sul canto growlato e sull'urlo iniziale. Buoni (seppur banalotti) alcuni brevissimi inserti di chitarra acustica. Lethe è ripresa dallo stile più rabbioso di The Mind's I dei Dark Tranquillity, ma il titolo potrebbe facilmente esser stato ripreso dall'omonima canzone sempre dei Dark Tranquillity, come se i No More Fear fossero stati affascinati dal concept. In A Black Frame viene nuovamente saccheggiato a fondo The Mind's I, il gruppo però decide di non fossilizzarsi sugli stessi stilemi e rende tutto più brutale, alla Death della prima metà di carriera. Ci si risolleva con Anxious Sensations, che ha aperture melodiche carine (complice anche il timido violino), ma Escaping from the Indifference di interessante ha solo l'outro acustica (che comunque è originale quanto un'automobile cinese e viene parzialmente rovinata dalle rauche urla catarrose del vocalist). The Lady With the Sickle, se si eccettua l'inizio black metal-oriented, continua a ricopiare quanto già ascoltato nel corso dell'album, sembra deviare leggermente The Strange Thing in the Tunnel con il suo inizio lento che pare una prosecuzione della chiusura di Escaping, ma ben presto il brano torna sui binari consueti, se si eccettua la chiusura (indovinate un po') acustica con sfondo di chitarre elettriche "emozionanti", con un concetto di fondo che ricorda l'outro di Perennial Quest dei Death, probabilmente tentando di recuperarne l'evocatività e la malinconia. Le atmosfere oscure del finale di Dagon però si allontanano da queste tonalità.
Male. Molto male. Peccato perché l'album sa essere roccioso e deciso, e alcuni spunti melodici risultano interessanti. Ma lavori-clone del genere rendono il tutto inespressivo, privo di spessore e sbiadito in maniera pesante. Un disco consigliato solo ai fan che stravedono per il genere e ai quali non interessa affatto riscontrare un tale vuoto di idee.