- Mehdi Ameziane, Solange Gularte - Voce, Chitarra, Violino, Flauto, Elettronica, Effetti
1. Daughter of Darkness (13:26)
2. Left For Dead (1:56)
3. Satanic Demona Part I (27:57)
4. Satanic Demona Part II (25:37)
5. Curare (6:02)
6. Carnal Flowers (5:47)
7. Her Face Is not Her Real Face (43:30)
8. Boby Double (12:19)
9. Slaves For the After Life (26:13)
10. The Source (4:23)
11. Santa Sangre Part I & II (29:09)
12. A Thousand Demons Invocation (28:41)
13. Will You Die for Me (29:04)
14. Black Pastures (28:45)
15. Devil's Fork (43:35)
16. The Invisibles (40:54)
Daughter of Darkness
Daughter of Darkness non è un disco di musica. E' la colonna sonora di un viaggio metafisico. Sei ore di totale smarrimento interiore e d'inquietudine, un monolite che spezza in due la terra alla sua fantasmagorica risalita.
Per un progetto come i Natural Snow Buildings, duo drone-folk parigino che fa capo a Mehdi Ameziane e Solange Gularte, tutto questo appare però di una shockante ovvietà: attivi dal 1999 - anno del primo lavoro Tracks on the Bloody Snow - i geniacci francesi hanno profondamente scosso gli ambienti musicali più d'avanguardia con dei veri e propri macigni dalla durata impressionante, presentandosi al contempo come un progetto più unico che raro in tutto lo scenario sperimentale europeo di nicchia. In ogni caso, Daughter of Darkness è un lavoro che per spessore e ricerca appare come non mai nuovo e insolito: un'opera che scavalca qualsiasi confine tanto nei concetti quanto nella vera e propria composizione. Ancora più denso, prolungato e roboante di altri colossi targati Natural Snow Buildings (l'indiscusso capolavoro The Dance of the Moon and the Sun del 2006 su tutti), Daughter of Darkness ne esaspera la prolissità linguistica e il minimalismo espressivo, ne trasforma varietà atmosferica e fraseggi strumentali, andando a costruire un immaginario avant-folk da apocalisse sovrannaturale, spezzato e graffiato da improvvisi climax di drone e feedback laceranti.
Già di per se enigmatica e simbolista, l'atmosfera del disco viene resa ancora più mesmerizzante da una produzione lo-fi che ne esalta il carattere rudimentale e la più rarefatta essenza, facendola sembrare un mistico monumento abbandonato, una reliquia lentamente ricomparsa dagli inferi della terra che profetizza la fine del mondo, introducendoci nelle più sconosciute galassie dell'universo umano e - soprattutto - naturale. Il lento rituale folk di fiati e archi di cui è costituita l'opener Daughter of Darkness presenta a grandi linee l'andamento, le caratteristiche strumentali e il vigore atmosferico del disco: i suoni della title-track catapultano immediatamente in una dimensione remota e non-umana, aperta da un inquietante rito acustico che man mano viene sviscerato della sua componente naturalistica e filtrato elettronicamente (splendido il finale ambientale). Left or Dead - che messa a confronto con la durata degli altri brani può sembrare un inutile frammento - segna la prima, timida apparizione dei drones e dei soundscapes ambientali, sebbene qui presentati in una veste tutt'altro che roboante bensì insolitamente dolce e avvolgente. Dopo il quarto d'ora introduttivo delle prime due tracce, Daughter of Darkness comincia a svelare i suoi primi capolavori: Satanic Demona Part I e II, tra i migliori momenti dell'album, sono un'accoppiata di quasi un'ora di pura alienazione emotiva-atmosferica; dissolte in una straniante meditazione orientale in cui gli strumenti sembrano morire in un ostinato lamento, le due suite presentano per la prima volta l'essenza più sotterranea e il fascino criptico dell'opera attraverso lunghe trame sonore ora incredibilmente decadenti (l'apertura della prima Satanic Demona), ora più festose e bucoliche (la melodia centrale della seconda).
Con Curare gli intrecci strumentali si fanno più fitti, i fiumi melodici più densi e profondi, costantemente prolungati come se dovessero accompagnare il lento e inesorabile mutare del cielo, la secolare danza delle nuvole: ma quando l'atmosfera del disco sembra piombare nel più inquietante grigio, ecco comparire inaspettatamente l'abbandono arcadico di Carnal Flowers che apre l'universo naturale dei Natural Snow Buildings verso soluzioni meno ricercate ma sempre toccanti, come il coro femminile che per tutta la durata del brano si impone dolcemente sul sottostante tappeto ambientale.
Le atmosfere più tese e criptiche di Satanic Demona riemergono però con l'altro gioiello sotterraneo Her Face Is Not Her Real Face mediante cavalcate strumentali ben più vigorose tra le quali si insinuano penetranti soundscapes elettronici che spezzano in due il sapore naturalistico del brano. Lo stesso contrasto tra oscurità tribale e aperture agresti si ripete con l'arrivo di Body Double che, come a voler rimediare alle più decadenti atmosfere evocate nei brani precedenti, si lascia andare ad un ipnotico rituale acustico dalla spaventosa vis psichedelica, una fiaba d'altri tempi riesumata attraverso gli occhi di due vagabondi dell'inconscio. Sebbene la durata dei brani si faccia sentire con una certa efficacia, Daughter of Darkness è un incantesimo dal quale non ci si riesce a staccare, un lamento ancestrale che annichilisce volontà e spirito sotto le note di un'atmosfera dai poteri quasi magici, tanto nelle sue espressioni più dure (Slaves for the After Life è tra gli episodi più folgoranti del disco) quanto nelle sue più quiete aperture (The Source, morbida e ipnotica, è come se bloccasse la risalita dell'abisso oscuro della precedente traccia).
Da qui in poi Daughter of Darkness non permette più alcuna pausa, mettendo in sequenza l'uno dopo l'altro i suoi più monolitici totem: dapprima il delirio da trance sciamanica di Santa Sangre Part I & II, poi la terrificante A Thousand Demons Invocation, il momento più apocalittico e travolgente del disco. Commovente a causa di un'aura melodica quasi pesante e intrisa di deviante malinconia - oltre che visionaria nello strepitoso contrasto tra drones, feedback e tappeti acustici di sottofondo - A Thousand Demons Invocation evoca - come il titolo giustamente suggerisce - i fantasmi e gli spiriti più oscuri dell'opera rigettandoli in uno scenario agghiacciante: una tragedia in cui la natura riscopre le sue forze più devastanti (per certi versi l'intera atmosfera del disco ricorda la Sagra della Primavera di Igor Stravinskij, sebbene in un'ottica del tutto differente) e le lascia evaporare in un cielo sempre più plumbeo e tenebroso. Ma ancora una volta i Natural Snow Buildings spezzano la loro avanguardista marcia funebre attraverso inaspettate aperture atmosferiche, ora diafane come quelle di cui è permeata la splendida Will You Die For Me, ora metafisiche come accade nei 29 minuti di Black Pastures, un rituale lento ma dall'impatto devastante, soprattutto nella seconda fase del brano in cui il tenue andamento strumentale si dissolve progressivamente in un climax di drones duri e metallici, sebbene a resistervi al di sotto vi sia una melodia dolcissima. Devil Forks è l'episodio più lungo del disco (43:35 minuti) ed è anche la sua espressione più completa e toccante: sospinta da un leggero vento melodico, tutt'altro che oscuro bensì intriso di una pacatezza quasi inquietante, la canzone ripropone a più riprese sia i momenti più riflessivi di Daughter of Darkness (l'apertura è un qualcosa di commovente) sia le sue esaltazioni ritualistiche (i tamburelli a 3/4 di brano) e i suoi inasprimenti dronici più penetranti, risultando quindi come uno dei suoi disegni meglio riusciti.
Gli ultimi 40 minuti di Daughter of Darkness sono infine il coronamento di un'esperienza semplicemente sovrannaturale: The Invisible porta a termine il viaggio metafisico dei Natural Snow Buildings con una serie di sfiancanti dilatazioni atmosferiche, mai oscure e tenebrose ma piuttosto pervase da un alienante senso di tribalismo onirico.
Sei ore di pura perdizione sensoriale ed emotiva, un viaggio trascendentale in cui si dissolvono e riprendono forma sogni, allucinazioni, deliri paranoici, fantasmi, oscurità apocalittica e quiete arcadica, tutti protagonisti della medesima tragedia in cui si incontrano splendidamente la metafisica dei Popol Vuh di In Den Gärten Pharaos, lo psych-folk sessantiano dei Pearls Before Swine, l'elettronica kosmische e il drone minimale degli Earth. Come detto in apertura di recensione, Daughter of Darkness non è un semplice album, è di più: la durata spropositata e il prolisso minimalismo del lavoro potranno sembrare elementi di disturbo e di autocompiacimento, ma basta superare quella piccola barriera, scavalcare il mondo reale e sfuggire al tempo e allo spazio per ritrovarsi immersi in una delle più sconvolgenti esperienze musicali degli ultimi anni, sebbene a livello complessivo il capolavoro del 2006 The Dance of the Moon and the Sun rimanga ancora irraggiungibile.