- Ville Sorvali - Voce, cori, basso
- Henri Sorvali - Chitarra ritmica e solista, tastiere, fisarmonica, mouth harp, chitarra acustica, flauto, tin whistle, cori
- Mitja Harvilahti - Chitarra ritmica e solista, cori
- Marko Tarvonen - Batteria, percussioni, cori, chitarra acustica a 12 corde
- Markus Eurèn - Tastiere
- Hittavainen - Violino
- Frostheim - Kantele
- Blastmor - Cori
- Ville Sorvali, Henri Sorvali, Marko Tarvonen, Mitja Harvilahti, Markus Eurèn, Janne Perttila, Jukka Varmo - Coro
1. Karhunkynsi
2. Haaska
3. Pimeä
4. Jotunheim
5. Kaiku
Verisäkeet
Verisakeet, i versi insanguinati. Questo il titolo scelto dai finnici Moonsorrow per il loro ultimo lavoro. Un disco che si presenta subito come più oscuro e serioso del precedente KivenKantaja, disco che li aveva finalmente fatti conoscere a un pubblico più ampio.
Oscuro a partire dal jewel case, interamente e sorprendentemente di colore nero, proseguendo per un booklet minimalistico -cinque semplici pagine color pergamena riportanti i testi senza la traduzione, diversamente dai passati capitoli della band- e una copertina scarna, con il sangue che macchia quello che sembra essere il centro di uno scudo.
Anche i titoli delle canzoni (Artiglio d’Orso, Carogna, Oscuro, Jotunheim –la terra dei giganti-, Eco) suggeriscono una versione dei Moonsorrow meno ‘festaiola’ di quella talvolta espressa in passato (Pakanajuhla, Unhoduksen Lapsi).
Come detto, solo cinque canzoni. Eppure sul retrocopertina è ben specificato: “Total Running time 70.41 min”. Ciò che ci aspetta è dunque un disco epico come non mai, e dopo aver consumato questo disco nelle prime settimane d’ascolto vi posso assicurare che è assolutamente così.
Verisakeet è un disco maturo, ragionato, composto con classe sopraffina. Accantonate le tastiere imponenti, invadenti e pompose che fecero la fortuna di KivenKantaja, i Moonsorrow scelgono come attore principale le chitarre di Henri e Mitja, ruggenti rabbia ed epicità. A loro si affianca il cantato disperato di Ville, che usa il suo screaming monocromatico (mai stato particolarmente prodigo di variazioni nel cantato, il buon Ville Sorvali) per recitare i versi di sangue; al suo screaming si aggiungono gli urli in pieno stile black à la Burzum e i classici cori, anche loro trademark del sound Moonsorrow. Un piccolo sacrificio del folk in favore del black dunque, che fa spostare l’indicazione del genere da “Folk Metal” a quel mix di epico e black che è il “Viking Metal”.
Attenzione però: le tastiere non sono sparite, così come gli strumenti tipici o quelli acustici (violini, chitarre, flauti, arpa a bocca): semplicemente giocano più un ruolo “d’atmosfera” seguendo le indicazioni dei grandi del Black nordico (Emperor per le tastiere, Satyricon o Ulver per le chitarre acustiche), piuttosto che fare la parte del leone come nel disco precedente.
L’elemento black è stato quindi potenziato, ma ancora di più lo è stata la parte epica delle canzoni: gli intermezzi “sonori” tanto cari a Quorthon (Canto degli uccelli, rumori di fuochi, foreste, boschi e tutti quei piccoli accorgimenti che ogni fan dei Bathory non mancherà di apprezzare) che legano tutto il disco, senza lasciare pause tra un brano e l’altro; le parti cadenzate, quelle in cui emerge un cantato “parlato”, ma soprattutto lo si può sentire nell’atmosfera generale del disco.
Karhunkynsi è un vero macigno: aprire un disco con un brano di 13 minuti non è certo cosa da tutti. E non è certo una cosa apprezzabile da tutti, ma la grande classe di Henri Sorvali e compagni si dimostra in pieno nel presentare un brano che non stanca assolutamente nonostante la durata e questo discorso può essere fatto per tutti e cinque i capitoli del disco.
Peculiare anche la scelta, come da tradizione Moonsorrow, di cantare tutto in finlandese: la metrica anomala di questa lingua però non guasta, dando un tocco di particolarità in più alla loro musica. Per chi volesse approfondire le canzoni capendo anche di cosa parlano, le traduzioni sono comunque presenti sul sito ufficiale.
"Artiglio d'orso" è aperto dai rumori sopra citati e dal suono di un violino. Pochi secondi prima che le chitarre entrino prepotentemente in campo, sostenute da una batteria corposa e da uno scream corale di grande effetto.
Il brano scorre piacevolmente, rapendoci e trasportandoci nella terra delle foreste e dei laghi che ispira il gruppo; si passa come detto da intermezzi ricchi di pathos guidati da violino e munnharpe, solitamente rotti da un urlo isolato di Ville, a momenti di grande epicità black. Ottimo il finale in crescendo dopo i nove minuti, con delle rapide e devastanti accelerazioni che dimostrano come i Moonsorrow si gestiscano alla perfezione anche su tempi veloci.
Dopo 13 minuti la canzone si spegne, quasi inaspettatamente, su se stessa, mentre solo un soffio di vento rimane a condurci verso Haaska.
I rumori di una battaglia lontana e un azzeccato arpeggio di chitarra acustica aprono il secondo capitolo. Già si puo intuire il lontano avvicinarsi delle chitarre, che esplodono insieme allo scream selvaggio di Ville, aprendo il capitolo nella più totale epicità: al minuto e venti ecco scattare un riff spettacolare di chitarra supportato da una tastiera eccellente, che sostiene ottimamente la canzone fino alla prima interruzione. Uno dopo l’altro, gli undici minuti del brano scorrono via lasciandoci l’impressione di stare ascoltando un tremendo capolavoro: assoluto highlight, epico e bathoriano nei cori di sottofondo (non a caso Quorthon è citato nei ringraziamenti), Haaska è fantastica negli intermezzi di chitarra acustica e in quelli di violino ed eccellente nella sua descrizione delle rovine di un villaggio appena depredato e saccheggiato. Uno dei pezzi migliori della produzione Moonsorrow.
Terminato il racconto ci lasciamo cullare da un triste munnharpe, una chitarra acustica, un flauto, un violino. Semplici ingredienti per pochi minuti di malinconico sapore folk che ci portano per mano alla track seguente.
Pimeä (Oscuro) continua a stupire ed è allo stesso livello della precedente; nuovamente un pezzo meraviglioso con il quale il disco raggiunge il proprio apice. Ville qui si cimenta con uno screaming soffertissimo, che personalmente mi comunica la paura e l’angoscia per un domani incerto e pericoloso. I cori epici mitigano un poco questa sensazione, regalando comunque grandi brividi d’emozione.
Un lungo finale graziato da un buon assolo di chitarra è l’epilogo di questa prima metà del disco; dopo tre brani monolitici come questi sarebbe forse saggio spezzare un po’ il ritmo con un brano d’intermezzo, magari acustico, ma i Moonsorrow non sono di questa opinione e anzi ci presentano come quarta traccia Jotunheim, vale a dire il brano più lungo ed epico di Verisakeet.
La sognante intro di chitarra, basso e violino è comunque un buon momento di pausa, tre minuti di calma, annientati però per l’ennesima volta da un urlo di Ville, seguito da un riff potente ed incisivo. La descrizione del paesaggio arido e senza vita, custodito da giganti di fuoco e ghiaccio, viene reso con una grande dose di epicità, ostentata nei riff cadenzati, nella batteria lenta, nei pomposi versi corali (ben sette elementi si occupano dei cori), nel pregevole munnharpe di sottofondo.
Insomma un brano che riesce a mantenere viva l’attenzione, e certamente i Moonsorrow erano consapevoli di quello che stavano facendo piazzando un simile blocco a questo punto: d’altronde già in Kivenkantaja i finnici avevano fatto le “prove generali” per questo tipo di proposta musicale.
Alla fine dei sedici minuti di Jotunheim troviamo una silenziosa pausa di circa tre minuti. Così come Matkan Lopussa su Kivenkantaja, anche Kaiku (L’Eco) è una traccia triste, lenta e di “riposo”. I Moonsorrow scelgono quindi nuovamente la via della malinconia per chiudere il disco.
Kaiku è un canto, in coro, di guerrieri che si riposano dopo la battaglia o di viaggiatori mentre si fermano per la notte, sotto un albero e attorno ad un falò, a cantare una triste melodia dei loro avi. Il crepitare del fuoco e una dolce nenia di flauto che profuma d’antichità apre la traccia finale, e mentre gli uomini parlano e si riuniscono, una chitarra acustica disegna una melodia lenta quanto triste. Il canto e le parti strumentali, a volte volutamente imprecise e approssimative, dipingono nei cuori dell’ascoltatore una sensazione di abbandono e solitudine che ha pochi pari.
Una volta terminato il canto, i viaggiatori si addormentano, lasciandoci ad ascoltare per pochi minuti i rumori del fuoco che chiude questo Verisakeet.
Un disco da avere assolutamente per coloro i quali apprezzano il Viking e il Folk, ma anche qualche blackster in cerca di epicità potrà fermarsi ad ascoltare ed apprezzare i versi dei Moonsorrow.
Una piacevole conferma questo Verisakeet, e i Moonsorrow dopo quel gran disco che è Kivenkantaja si sono dimostrati capaci di ripetersi, dando prova di grande maturazione artistica.
E vi assicuro che dopo settanta minuti non ne sarete sazi, bensì ne vorrete dell’altro.