Mark Lanegan - vocals
Martyn Lenoble - bass
David Catching – guitar
Alain Johannes - bass, keys, and percussion
Duke Garwood – guitar
Greg Dulli – backing vocals
Joshua Homme -guitar
Shelley Brien – backing vocals
Chris Goss – guitar, backing vocals
Jack Irons – drums
Dave Rosser – guitar
Aldo Struyf – guitar, keys
1. The Gravedigger’s Song
2. Bleeding Muddy Water
3. Grey Goes Black
4. St Louis Elegy
5. Riot In My House
6. Ode To Sad Disco
7. Phantasmagoria Blues
8. Quiver Syndrome
9. Harborview Hospital
10. Leviathan
11. Deep Black Vanishing Train
12. Tiny Grain Of Truth
Blues Funeral
Il blues sarà contento che il suo funerale simbolico lo celebri una delle voci più intense degli ultimi venticinque anni anche se l’ultimo album di Mark Lanegan a causa delle sue incursioni elettroniche ha creato più di qualche chiacchiera da supermercato (che in una logica warholiana fanno solo che bene).
E a dirla tutta, Blues Funeral è uno dei più bei capitoli della ormai vasta produzione laneganiana (tra dischi a suo nome ma soprattutto collaborazioni): tradizionalista e rispettoso del passato del suo protagonista e delle aspettative di un pubblico affezionato tanto quanto moderno perché perfetto per i tempi nella sua produzione quasi wave ma non patinata (c’è Alain Johannes alla consolle, oltre che dietro a qualche strumento).
La fine del blues Lanegan decide di inscenarla con gli amici di sempre (ergo la mafia post-grunge/stoner/hard/alternative di sempre…Greg Dulli,Josh Homme, David Catching, Chriss Goss, chi altri?) che alternativamente ed elegantemente come il maestro di cerimonie fanno capolino tra i vari brani e la musica del diavolo viene qui rappresentata all’interno di un’iconografia maledetta ben cara al bel tenebroso, ricca più che mai di reminiscenze ‘Screaming Trees’, come nelle incalzanti Riot In My House e Quiver Syndrome (quest’ultima infettata dagli stessi batteri sintetici di Sex Dwarf dei Soft Cell e di Little Sister dei QOTSA), di toni fiabescamente dark in Leviathan e Deep Black Vanishing Train, spiritati in Bleeding Muddy Water, placidi e distesi in Phantasmagoria Blues.
Le critiche di cui si diceva in apertura probabilmente fanno riferimento alle chitarre alla ‘the edge’ di Harborview Hospital o alla cassa dritta di Ode To Sad Disco, ma è un peccato per i detrattori non aver compreso che Lanegan qui si è posto come un novello Caronte che ci traghetta ‘fuori - e possibilmente vivi - dagli anni ottanta’ con una lieve e struggente malinconia che grazie ai suoi toni mesti ci impedisce di sputare indietro alla cieca.