- Steve Hogarth - voce, chitarra
- Steve Rothery - chitarra
- Mark Kelly - tastiera, backing vocals
- Pete Trewavas - basso, backing vocals
- Ian Mosley - batteria, percussioni
1. The Other Half
2. See It Like A Baby
3. Thankyou Whoever You Are
4. Most Toys
5. Somewhere Else
6. A Voice From The Past
7. No Such Thing
8. The Wound
9. The Last Century For Man
10. Faith
Somewhere Else
Da oltre un ventennio sono sulla cresta dell’onda, da quando nel 1983 esordirono con Script For A Jester’s Tear, consegnando nel corso degli anni alla storia del rock veri e propri capolavori di progressive, o neo-prog come lo etichettarono molti, quali Misplaced Childhood, album che contiene l’indimenticabile Keyleigh, con buona probabilità la loro canzone più nota, pur tuttavia vivendo quegli alti e bassi propri di chi da troppo tempo è sempre sottoposto alle esigenti pretese di critica e pubblico. Appena tre anni fa erano stati capaci di riproporre il loro passato splendore, grazie ad un lavoro ben concepito e realizzato che rispondeva al nome di Marbles, così adesso i Marillion si rimettono in gioco con il nuovo Somewhere Else, evitando come sempre di essere sempre uguali a sé stessi, in ossequio allo stesso titolo della loro ultima fatica secondo cui bisogna guardare sempre altrove, e soprattutto di farsi travolgere dai dictat del music business, ragione principale per la quale in tempi recenti decisero di auto-finanziarsi, ricorrendo al sostegno anche economico dei propri fans per ricambiarli appunto con uscite che godono di una lavorazione e realizzazione del tutto indipendenti ed autonome, come in un rapporto di reciproca fiducia, realizzazione con cui è stata concepita anche quest’ultima loro release.
Ascoltando i dieci brani che compongono Somewhere Else è possibile riscontrare qualche esiguo richiamo ad alcuni precedenti lavori, infatti le atmosfere sono quelle pacate ed eteree di Season’s End del 1989 e di Holidays In Eden del 1991, in parte già riproposte anche in Marbles, il quale però pareva usufruire di una maggior presenza e diversità di sfumature rispetto a quest’ultimo, e non sarà un caso allora se, come vedremo, mancano proprio quei brani in grado di spiccare maggiormente, consentendo così all’album di essere ricordato in un più lungo periodo o magari immortalato nelle pagine del rock, come a loro tempo fecero Cover My Eyes, Easter, Uninvited Guest o come di recente è successo con Genie o You’re Gone, tratti proprio dal loro più recente lavoro del 2004, ma la carenza riguarda anche quei pezzi in grado di diversificare un po’ l’andamento, come Don’t Hurt Yourself sempre per rimanere in tema con Marbles.
Preferiscono tenersi ben lontani dal tecnicismo esasperato o dalle lunghe suite articolate che hanno fatto la felicità dei più devoti al genere, preferendo invece proporre una personale rilettura del moderno progressive, maturata dalla loro lunga e ricca esperienza, senza però risultare mai banali o scontati, proprio come avviene nell’opener The Other Half, che presenta un continuo crescendo che si apre poi in un melodico ed acceso refrain, lento e quasi sommesso invece l’incedere delle strofe in See It Like A Baby, primo singolo estratto dal disco, su cui interviene poi l’avvolgente refrain, facile riconoscere l’inconfondibile stile dei Marillion nella più dolce Thankyou Whoever You Are, pervasa da una celestiale e romantica melodia, ed è proprio in brani come questo che più si riallacciano le influenze di Season’s End ed Holidays in Eden, e forse è anche per questo che risulta fra i brani più facili da captare ai primi ascolti, mentre un intercalare più energico viene dato dalla breve Most Toys, che presenta anche qualche accenno di modernismo alla Coldplay o Radiohead. Piano e chitarra stregano l’ascoltatore pennellando una melodia eterea e sommessa, quasi sfuggente, nella title-track, una delle canzoni più lunghe e tortuose del lotto, con Hogarth che completa il quadro grazie alla sua interpretazione versatile ed espressiva, prima di giungere al più animato finale, anche A Voice From The Past si trascina in un continuo crescendo dove il maggior protagonista è il piano di Kelly, e che poi regala un ultimo minuto particolarmente emozionante e coinvolgente, si sentono un po’ gli U2 in No Such Thing, brano però sottotono, dove quasi fastidiosa risulta la voce filtrata di Hogarth. L’album, nella sua pacatezza e nelle sue atmosfere eteree ed oniriche rischiava di diventare monocorde, nonostante il breve ed isolato episodio di Most Toys, quindi la presenza a questo punto di un pezzo più grintoso ed incisivo come The Wound arriva come una manna dal cielo, anche se l’episodio non brilla certo particolarmente, ma come detto in principio è proprio questo il limite di cui il presente album soffre rispetto al suo predecessore, tant’è che The Last Century For Man, nonostante un finale più maestoso, riporta il tutto alla leggerezza che sembra inconfondibilmente contrassegnare l’ultima fatica di Mosley e compagni, ed un po’ a conferma di ciò arriva la dolcissima chiusura di Faith, con Hogarth che si muove su tonalità alte ma sempre sommesse.
Qualitativamente non siamo ai livelli né dei grandi capolavori passati né del precedente Marbles, ma siamo pur sempre in presenza di un album che appassionerà gli amanti del rock progressivo, e non solo quelli, considerando che minutoraggio e strutture non sono poi quelle tipiche di questo genere, confermando così i Marillion come una fra le maggiori realtà che popolano l’attuale e sconfinato territorio della musica rock.