- Eric Adams - voce
- Ross "The Boss" Friedman - chitarra
- Joey DeMaio - basso
- Scott Columbus - batteria
1. All Men Play On Ten (04:01)
2. Animals (03:34)
3. Thor (The Powerhead) (05:24)
4. Mountains (07:39)
5. Sign Of The Hammer (04:19)
6. The Oath (04:54)
7. Thunderpick (03:32)
8. Guyana (Cult Of The Damned) (07:10)
APPROFONDIMENTO STORICO: LA STRAGE DI JONESTOWN, GUYANA
Coloro che ritengono Guyana (Cult Of The Damned) un brano ispirato da qualche libro fantasy si sbagliano di grosso. Il testo della canzone merita un breve ma rilevante approfondimento, che potrebbe risultare abbastanza interessante e sicuramente sconvolgente. Le liriche dell’ultima traccia di Sign Of The Hammer narrano di un terribile massacro, compiuto nel 1978 in Guyana, piccolo stato del Sud America che si affaccia sull’Oceano Atlantico. Protagonista assoluto della vicenda fu il reverendo Jim Warren Jones, fondatore di una setta, chiamata Tempio Del Popolo, che aveva il compito di aiutare gli ammalati ed i bisognosi. Questo personaggio fu sicuramente uno dei più bizzarri degli ultimi decenni: era comunista e filo-sovietico, ebbe moltissime amanti, abusò sessualmente di numerosi uomini e poco si sa tutt’oggi riguardo alla sua figura. Jim esercitò il suo potere spirituale prima a San Francisco e poi nella giungla della Guyana, dove avvenne l’olocausto. Egli professava un culto cristiano-battista e preparava i suoi seguaci ad affrontare il suicidio. I fatti si svolsero il 19 novembre 1978 nella foresta tropicale del paese sudamericano. Inizialmente vennero assassinati con un armi automatiche alcuni funzionari americani, fra cui il deputato Ryan, che avevano il compito di indagare sulla setta, e dei giornalisti, i quali si trovavano lì in veste professionale. Poi la carneficina: novecentotredici (cifra approssimativa) membri del Tempio Del Popolo, fra cui duecentosettantasei bambini, morirono avvelenati dopo aver bevuto un intruglio contente del cianuro. Chi si rifiutò di inghiottire il miscuglio letale venne ucciso a colpi di revolver. Tutto ciò in nome del Cristianesimo, di Gesù Cristo, ma anche del Socialismo. Sono infatti molti i rapporti fra Jim e l’ambasciata sovietica in Guyana, la quale venne designata dallo stesso reverendo come l’erede del suo prezioso tesoro, che però non giunse mai a destinazione. La vicenda è comunque avvolta nel mistero e sono molti gli aspetti rimasti ignoti. Anche il reverendo Jim perì in modo violento: sembra che egli stesso, o, a seconda delle versioni, un altro membro della setta, sparò alla sua testa con una pistola. Un ordine venuto dall’alto fece in modo che i cadaveri poi venissero sepolti in fosse comuni, senza alcuna iscrizione, ricoperti di terra ad Oakland in California e dimenticati lì per sempre. Semplicemente agghiacciante. Pochi saranno a conoscenza di tale raccapricciante evento e questo approfondimento vuole far riflettere innanzitutto sulla follia che può raggiungere la mente umana, ma anche sulla stampa, la quale preferisce parlare costantemente di determinati fatti a discapito di altri, che forse dovrebbero essere invece noti a tutti.
Sign of the Hammer
Galvanizzati dal successo di Hail To England e del relativo tour sul suolo britannico, i Manowar tornano negli Stati Uniti decisi a ripetere il trionfo ottenuto con il loro terzo e magnifico album. Nel frattempo però, i rapporti con la Music For Nations sono andati peggiorando e la band americana decide perciò di firmare un altro, ennesimo, contratto discografico. L’etichetta con cui i Kings Of Metal sottoscrivono l’accordo si chiama 10 Records ed i dirigenti della stessa invitano immediatamente il gruppo a tornare in sala d’incisione. I Manowar registrano così alcuni brani, che si vanno ad aggiungere a quelli delle vecchie sessioni che non erano stati poi inclusi in Hail To England. Il 15 ottobre 1984 esce Sign Of The Hammer, quarto ed ultimo capitolo dell’era epica all’interno della discografia manowariana.
Ad aprire l’opera si trovano due pezzi lineari, diretti, accessibili, ma non per questo scontati: All Men Play On Ten e Animals. Certo, occorre dimenticare un’opener superba come Blood Of My Enemies per poter apprezzare appieno la coppia d’ouverture. La prima composizione del duo è un vero tributo alla nuova casa discografica ed allo stesso tempo un inno contro la musica falsa, costruita a tavolino, e tutti i compromessi che essa determina. I Manowar mai si piegheranno alle tendenze del momento né tanto meno suoneranno a volumi accessibili ai più, questo il messaggio del testo. Il ritmo è cadenzato ed il buon Eric, esordendo subito in modo impeccabile, non necessita certo di presentazioni. All Men Play On Ten non sarà forse il miglior brano scritto dai Manowar, tuttavia rimane godibile e spassoso, specialmente se si riesce ad entrare totalmente in sintonia con l’atmosfera pacchiana della song. Fortunatamente Animals non è un manifesto animalista e nemmeno una dichiarazione d’amore verso la natura. Il testo della seconda traccia di Sign Of The Hammer è infatti incentrato sui divertimenti della vita, sulle notti passate in modo animalesco. Rispetto a All Men Play On Ten, uscita pure in formato singolo nel settembre 1984, Animals è più scattante, frenetica, travolgente ed alla lunga risulta anche più convincente. Terminato il duo introduttivo, si apre quella che è sicuramente la parte migliore dell’album. Thor (The Powerhead) è difatti soltanto il primo capitolo di una serie di fenomenali canzoni che entreranno prepotentemente nella storia dell’Epic Metal. Il ritmo è incalzante, le linee vocali di Adams ineccepibili ed inoltre Scott, con il suo stile elementare ma possente, lavora egregiamente dietro le pelli. I chorus durante il ritornello e l’assolo di Ross non possono che arricchire una composizione pressoché insuperabile. I Manowar dimostrano quindi di non essere soltanto i rozzi compositori di Animals, bensì degli artisti in grado di scrivere anche testi incentrati sulla religione e sul mito. Cambiano le liriche, ma non l’atmosfera: Mountains prosegue quanto iniziato da Thor (The Powerhead) e l’ascoltatore si sentirà realmente trasportato in quei freddi luoghi lontani dove regnano da secoli le divinità nordiche, fra cui appunto il dio del martello. La quarta traccia di Sign Of The Hammer inizia delicatamente e cattura subito chiunque abbia il piacere di udirla. Eric incanta grazie alle sue eleganti linee vocali e perfino quando il brano si movimenta leggermente l’impressione di calma ed imperturbabilità persiste. Mountains è distacco dal mondo terreno, è superiorità fisica ma soprattutto interiore, è esaltazione delle doti spirituali dell’essere, è l’essenza della vita. Si tratta di un pezzo incantevole baciato da grazia divina, probabilmente la song più mistica mai scritta dai Manowar nella loro carriera.
Si prosegue poi con la titletrack dell’album, Sign Of The Hammer, cui incipit risulta fin troppo caotico. Quando Eric comincia a cantare però, le cose cambiano totalmente, tanto che la canzone appare una delle più incisive dell’intero platter. Tornano inoltre i cori che avevano caratterizzato Thor, con risultati altrettanto appaganti. Sign Of The Hammer si dimostra quindi trascinante, in particolar modo durante il refrain, e possente, per via della prestanza di Scott alla batteria. Il simbolo che deve guidare ogni uomo degno di gloria è, secondo i Kings Of Metal, Mjollnir, cui nome significa “ciò che schiaccia, annienta”. Il martello di Thor, dio del tuono e del fulmine, è infatti simbolo di potenza ed autorità, aggettivi senz’altro attribuibili anche al sound della canzone. Si chiude infine, in maniera lenta ed ossessiva, un’altra grandissima prova dei Manowar, l’ennesimo straordinario capitolo di quest’opera praticamente impareggiabile. Quello che inizialmente sembra il solito tedioso assolo di Joey risulta poi, in realtà, l’esordio di The Oath, track numero sei dell’album. Una cavalcata inarrestabile, non ci potrebbe essere descrizione più appropriata per la song in questione. I ritmi sono sfrenati, Adams costantemente sopra le righe, il drumming assurdo, l’assolo di Ross fenomenale ed il testo assolutamente spietato. Quasi cinque minuti a dir poco devastanti, paragonabili soltanto alla furia di Kill With Power, contenuta in Hail To England. The Oath è un assaggio di ciò che faranno i Kings dal 1987 in poi, a partire da Black Wind, Fire And Steel, passando per Wheels Of Fire e Ride The Dragon, fino The Power, tutti brani alquanto diversi fra loro, ma accomunati da un incedere dalla velocità disumana per un genere come l’Heavy. Spento il turbo i Manowar, o meglio Joey DeMaio, si abbandonano alla solita, inutile, noiosa, canzone strumentale: Thunderpick. Non tutte le tracce strumentali sono monotone e pesanti, basti pensare a Transylvania degli Iron Maiden e Orion dei Metallica, tanto per rimanere in ambito Metal. Tuttavia quelle dei Kings, fino al 1984, di certo non sono neanche minimamente paragonabili a quelle appena citate. La band statunitense però, come è sempre accaduto, si riprende prontamente grazie a Guyana (Cult Of The Damned), capitolo conclusivo di Sign Of The Hammer. La frazione iniziale vede la totale mancanza di parti vocali e riesce ad introdurre al meglio quanto segue. Fa quindi la sua apparizione la voce del singer americano, considerato uno dei migliori cantanti di sempre, e da questo momento ogni singola nota sarà accompagnata da un’espressività vocale incredibile. Le sonorità del lungo pezzo (più di sette minuti) sono accostabili a quelle di March For Revenge (By The Soldiers Of Death) e Bridge Of Death, ovvero due chiari esempi ciò che vuol dire Epic Metal. Il ritornello esplode poi inesorabilmente e rimarrà ben impresso nella mente dell’ascoltatore. A metà brano il ritmo si fa più incalzante e lo stile canoro di Eric cambia drasticamente, a dimostrazione delle capacità tecniche non indifferenti dello stesso. L’immancabile assolo di Ross The Boss non fa che accrescere lo splendore sprigionato dalla song. Solamente il finale, alquanto superficiale, non convince fino in fondo, ma si tratta di un particolare ampiamente marginale.
Dopo circa quaranta minuti di ottima musica e otto canzoni, tanto varie tra loro quanto basta per poterle apprezzare singolarmente, termina Sign Of The Hammer e con questo un’intera epoca. Dal prossimo album infatti, i Manowar abbandoneranno l’Epic Metal per dedicarsi ad un semplice Heavy più diretto ed appariscente. Il superbo full length del 1984 chiude al meglio la memorabile la tetralogia di stampo epico, aperta da Battle Hymns e proseguita con Into Glory Ride e Hail To England, tutti dischi seminali per la storia del Rock ed imperdibili per tutti gli appassionati di musica Metal. Sign Of The Hammer Be My Guide!