- Jonas Almquist - Chitarra
- Markus Andé - Chitarra, violino
- Erik Grawsiö - Batteria, voce
- Pierre Wilhelmsson - Basso
Guest
- Ymer - Voce
1. Vid Hargen (Intro)
2. Sigrblot (Sangue per la Vittoria)
3. Skymningsresa (Viaggio del Crepuscolo)
4. Kolöga trolltand (Dente del Troll dagli Occhi di Carbone)
5. Dödens strand (Le Spiagge della Morte)
6. Preludium
7. Vredens tid (L' Età dell'Ira)
8. Svunna minnen
9. Frekastein (La pietra del Lupo)
10. Hemfärd (Viaggio a casa)
11. Segervisa (Canzone della Vittoria)
Vredens Tid
I lupi tornano ad ululare alla luna: Vredens Tid è l’ultima fatica discografica degli svedesi Månegarm, preannunciata su RockLine.it da una splendida intervista al chitarrista Erik Grawsiö. (la potete leggere QUI).
Prima di iniziare, è importante mettere bene le cose in chiaro: i Månegarm non hanno tradito le attese, e continuano la striscia positiva di ottimi lavori che li ha portati a essere –oramai possiamo dirlo- una colonna portante del Viking Metal svedese. Stilisticamente, Vredens Tid continua sulla strada di Dödsfärd (puoi leggere la recensione QUI), proseguendo e sviluppando quel discorso di progressiva “melodicizzazione” della loro proposta che salta chiaramente all’orecchio se si ascolta cronologicamente la loro discografia.
Il gruppo ha, infatti, incorporato ancora più intimamente nel proprio sound quegli elementi più accessibili tipici del folk, come maggiori inserti violinistici e ampio spazio ai cori in voce simil-pulita. E, soprattutto, Vredens Tid è caratterizzato da un riffing molto più orientato al folk e al melodico che non al black grezzo, come poteva essere invece in un Havets Vargar o un Nordstjärnans Tidsålder.
Questa nuova (più che nuova, rinnovata) proposta conduce ad un risultato di buon livello, maggiormente ispirato nei frangenti più trascinanti (“Skymningsresa”), meno in quelli più stucchevoli (“Sigrblot”): certo è che la musica dei Manegarm si è fatta più immediata ed accessibile, forse sulla scia del relativo successo di gruppi come Finntroll, Korpilaani o Ensiferum.
Inoltre, a differenza di quanto accadeva in Dödsfärd, torna a farsi sentire la delicata voce di Ymer, da sempre al fianco dei quattro svedesi (se si esclude appunto il disco precedente): i suoi interventi sono sempre contraddistinti da una grande raffinatezza e donano un’eterea e sognante atmosfera agli stacchi acustici.
Altra costante è Kris Verwimp, che anche stavolta si è occupato dell’artwork, [ottimo, e visibile QUI] raffigurante un gigante che sbuca dai boschi e distrugge un campanile – e che, come ci raccontava Erik nell’intervista, inscena un momento della terza canzone, "Kologa Trolltand".
Ma veniamo al disco: Vredens Tid è aperto da un brano d’introduzione, Vid Hargen, decisamente anonimo a dir la verità, mentre ci si tuffa nel disco vero e proprio con la seconda, SigrBlot, rilasciata come singolo scaricabile online qualche tempo prima dell’uscita del disco (la potete scaricare QUI). Estremamente (forse troppo) orecchiabile, sembra voler proseguire sulla strada della opener del disco precedente (la bella "I Evig Tid"), ma è un po’ troppo rifinita, ruffiana e poco sincera per esserne allo stesso livello: bocciata. Notevole comunque la sequenza acustica ai due minuti, seguita da una buona parte solistica.
Dopo un inizio che lascia un poco interdetti, giunge l’ora del “viaggio del tramonto”: e che viaggio! Skymingsresa è assolutamente il brano migliore del nuovo disco, trascinante nel suo accompagnamento folkeggiante di violino, e nella voce urlata e ricca d’eco di Erik. Si parlava del ritorno di Ymer: eccola deliziarci con le sue corde vocali, prima che la batteria (che, altro appunto, suona un po’ “troppo” finta su questo Vredens Tid) irrompa nuovamente seguita dalle veloci chitarre di Jonas e Markus.
La terza, Kologa Trolltand, è un macigno che supera i sette minuti, e sinceramente appare un po’ troppo tirata per le lunghe: la canzone è decisamente buona, ma cinque minuti sarebbero bastati ed avanzati.
Si torna sullo stile di Skymingsresa con la quinta, Dodens Strand (le spiagge della morte), un filo più heavy-oriented, in cui il nuovo stile vocale di Erik, più pulito e meno screamato, trova sfogo e dimostra la sua efficacia: la canzone raggiunge livelli d’eccellenza dopo il minuto 2.40, quando assistiamo a un rallentamento, a dei cori (che faranno sfracelli in sede live) e alla ripresa del cantato da parte di Erik, su un ritmo cadenzato con il violino sempre in primo piano. Esaltante.
Dopo i 3 minuti e mezzo di Preludium , in cui la calma iniziale si trasforma in urla guerresche e rumore di spade, assistiamo alla titletrack Vredens Tid, aperta dal solido riffing delle due chitarre. E’ Ymer a gestirne l’incipit, prima che il furioso screaming di Erik (simile a quello dei vecchi tempi) torni a devastare il campo di battaglia. Brano di medio livello, che gioca sul contrasto del cantato, in quanto la song si dibatte fra i toni angelici della singer e quelli rabbiosi di Erik, in un continuo rovesciamento di stuazioni.
Svunna Minnen può essere ricondotta al brano “Ymer”, settima traccia del debut album, un intermezzo soave di chitarra acustica e voce femminile che si consuma in poco più di un minuto. Davvero sognante.
La velocità dirompente di Frekastein subentra di lì a poco, presentandoci un brano nuovamente di gran fascino, in cui la doppia cassa e lo screaming si alternano a rapidi momenti violinistici davvero azzeccati: Frekastein è un altro gran brano, caratterizzato anch’esso da un break centrale in cui l’ululato dei lupi e la voce di Ymer rendono il tutto molto più calmo. Incredibile come praticamente tutti i brani abbiano una struttura simile, con lo stacco centrale più melodico, e nonostante ciò ognuno si differenzia dagli altri, riuscendo sempre a stamparci in testa la propria melodia.
Hemfard (Ritorno a casa) riprende i cori alla Dodens Strand, li rende più intimi e li inserisce all’inizio, circondandoli d’arpeggi: l’atmosfera cambia e si fa molto più malinconica, per un altro di quei brani che faranno ricordare questo disco. L’alta voce di Ymer stavolta volteggia sopra ai poderosi chitarroni, mentre il violino interrompe le strofe con le sue melodie che profumano di tempi andati. A seguire, la sgraziata voce clean di Erik trova nuovamente motivo d’essere, comunicando una tristezza di fondo che non viene nascosta dalle accelerazioni folk. Centro pieno, stavolta, nonostante gli otto minuti abbondanti. Il brano non stanca, il piede continua a battere a tempo, la mente viaggia seguendo le espressive linee vocali, la scintilla che accendeva canzoni come "Fadernas Kall" torna a bruciare…
Si chiude con la bella Segervisa, la canzone della vittoria: l’apertura è affidata alla delicatezza di Ymer, con la quale duetta un coro maschile composto e commovente, il tutto accompagnato semplicemente dalla chitarra acustica. Una chiusura in grande stile, non c’è che dire; lasciamoli gustare la loro vittoria, mentre brindano in una taverna: la meritano tutta.
Per riassumere: è un disco che si ascolta con piacere e che esalta parecchio, per via della sua dimensione più “facile” e live-oriented; consigliato ai novizi del Viking, che troveranno di che farsi le ossa. L’unica perplessità rimane magari sulla longevità del platter in questione, che per ora [a distanza di qualche mese dall’uscita] sembra ad ogni modo reggere eccellentemente.
Discorso un po’ diverso per chi ama le sonorità più violente del passato: l’evoluzione ha portato i quattro lupi a un sound diverso da quello degli esordi - chi non può soffrire questa nuova versione dei Manegarm se ne faccia una ragione; di certo ci si aspetta una nuova, ennesima maturazione che li porti a perfezionare questo nuovo stile meno black e più folk.
Sono diventati più commerciali? Forse sì, forse no: non fatevi depistare dai pregiudizi, non restate ancorati al passato: siamo entrati nel Tempo dell’Ira…