- Tomas Lindberg - voce
- Shane Embury - basso
- Jesse Pintado - chitarra
- Nicholas Barker - batteria
1. Feeding on the Opiate (01:29)
2. Castrate the Wreckage (01:35)
3. Violent Reprisal (01:03)
4. Detestation (01:34)
5. Retrogression (01:45)
6. Slaughterous Ways (01:42)
7. Dead Sea Scroll Deception (02:28)
8. Hate Breeds Suffering (02:14)
9. Catharsis (02:33)
10. The Jesus Virus (01:33)
11. Broken World (00:47)
12. Horns of Venus (02:00)
13. High Tide in a Sea of Blood (02:03)
14. Cascade Leviathan (02:42)
15. Fake Somebody / Real Nobody (02:00)
16. The Sixth Extinction (02:16)
Hate Breeds Suffering
A tre anni di distanza da quel Pleasure Pave Sewers che tanto scosse la scena death/grind in un periodo di sonno generale portato da troppe sperimentazioni nel campo, ecco che i Lock Up tornano con il lavoro della loro definitiva consacrazione. Hate Breeds Suffering è un ritorno decisamente più veloce ed energico del già furioso predecessore ed in aggiunta, mostra anche un altissimo tasso di orecchiabilità nei pezzi. Per essere più chiaro, ogni singolo brano nella sua violenza mostra riffs arrembanti e refrain che una volta entrati in testa non ne usciranno mai più. Questa è la vera forza di una band che con questo lavoro firma un capolavoro nel genere, il loro zenit compositivo che mischia sapientemente ed intelligentemente hardcore, death e grind. Nomi gloriosi del passato ritornano in mente costantemente ascoltando queste tracce e come non immaginarli, visti i componenti che creano una line-up sempre da brividi con un solo cambio, quello alla voce con la dipartita di Tagtgren e l’arrivo di un certo Tomas Lindberg.
Angherie varie, violenza e ribellione sono i temi che stanno alla base di una proposta musicale altrettanto violenta e senza compromessi. In meno di trenta minuti, i Lock Up non si risparmiano mai e votano anima e corpo a ricreare un muro sonoro raramente sentito prima. Le tracce si susseguono senza sosta, senza cali di intensità o velocità che facciano presagire a cambiamenti o ad “addolcimenti”. Non c’è pietà, non ci sono mezze misure. La registrazione, questa volta leggermente più impastata ma decisamente più pesante a favore della chitarra del compianto Pintado, dona la giusta profondità ed oscurità ai pezzi e la band fa il resto. L’apertura del disco è affidata all’urlo “Play from your fucking heart” del controverso comico statunitense Bill Hicks, una rullata ed il massacro inizia con Feeding on the Opiate. Up tempo, blast beats e riffs crust alternati a passaggi in tremolo come elementi essenziali di questa forsennata marcia alla totale distruzione. La voce di Tompa varia abbastanza in tonalità dal suo scream acido sino a lidi quasi growleggianti, anche se la varietà di Tagtgren era di un altro mondo, senza togliere nulla alla potenza micidiale dell’ex cantante degli At the Gates.
Mediamente le canzoni si aggirano sui due minuti, forse anche di meno ma esse mostrano una completezza pazzesca per quella che è la loro effettiva durata appunto. Nulla è lasciato al caso e tutto è studiato per colpire nel segno sia come potenza e velocità che come orecchiabilità. I pochi passaggi “lenti” si possono trovare all’inizio di Detestation, Dead Sea Scroll Deception o Slaughterous Ways. Trattasi ad ogni modo di momenti isolati in un marasma di proporzioni bibliche. Le impazzite ripartenze sono sempre in agguato dietro l’angolo, come se si schiacciasse un bottone che poi non si riesce più a sbloccare. Forse la parte migliore del disco si ha dagli stop and go basso/chitarra e ritornello annesso di una ferale The Jesus Virus in avanti, passando da una fantasticamente oscura The Horns of Venus. Ad ogni modo è veramente scegliere un pezzo migliore dell’altro e si rimane realmente basiti di fronte al trittico in chiusura Cascade Leviathan - Fake Somebody / Real Nobody - The Sixth Extinctio: i riffs esemplificano alla perfezione la fusione degli elementi catchy con la brutalità e velocità death/grind.
In chiusura si può solo riconfermare l’assoluta validità di un prodotto che farà la felicità dei nostalgici delle sonorità di fine anni 80. L'ascolto è anche caldamente raccomandato per coloro i quali considerano il deathcore il massimo della pesantezza ai giorni nostri: un ripassino non fa mai male e quest’album insieme a pochi altri può essere la giusta cura.