- Justin K. Broadrick - Voce, Chitarra, Tastiere
- Ted Parsons - Batteria
- Diarmuid Dalton - Basso
1. Conqueror (08:10)
2. Old Year (05:46)
3. Transfigure (05:58)
4. Weightless & Horizontal (10:06)
5. Medicine (07:22)
6. Brighteyes (07:20)
7. Mother Earth (07:16)
8. Stanlow (05:58)
Conqueror
Work in progress. Questo è lo stato attuale del progetto britannico Jesu, apparso sulle scene nel 2003 e capace di raccogliere meritate lodi già dall’anno successivo, grazie al full-length omonimo di debutto, mirabile calderone in cui influenze Drone, Doom Metal, Industrial, Ambient e Post-Rock si univano con la desolazione di plumbee atmosfere oppressive: per quel disco pesante e coerente, dotato di un muro di suono compattissimo, ci fu un plauso quasi unanime di critica e pubblico.
Aggiorniamoci al 2007, però: “Conqueror”, neonata creazione di Broadrick, suona come suonerebbero i My Bloody Valentine se questi avessero avuto un passato nel Doom Metal. Sull’onda del controverso EP “Silver” (2006), infatti, il talentuoso Justin Broadrick ha composto un disco che rappresenta un nuovo passo in avanti, dimostrando un’encomiabile voglia di progredire e rinnovarsi: le tendenze attuali dell’ex-membro di Napalm Death e Godflesh sono condensate in questo “Conqueror”, disco che stilisticamente andrebbe comparato solamente a “Silver”, ma che non riuscirà ad evitare lo scomodo ed impietoso confronto con l’unico altro LP della band, il debutto omonimo.
Scontro che mette a confronto due modi quasi antitetici di intendere la musica di Jesu: mentre la spina dorsale di “Jesu” era costituita da vibrazioni corrosive, in “Conqueror” le chitarre rovesciano nubi di effetti; spesso e volentieri “Jesu” mostrava i denti e si accigliava, tirando per le lunghe finali interminabili, quando invece “Conqueror” preferisce affascinare con un sorriso amaro e chiudere il sipario nella metà del tempo; e se “Jesu” penetrava come una piaga sotto la cute per annientare le emozioni dall’interno, “Conqueror” tenta un approccio esteriore, confondendo e annebbiando la vista e l’udito prima di arrivare a scalfire le nostre barriere.
“Conqueror” si accoccola docile su un suono che ha fra i propri antenati lo Shoegaze di inizio anni ’90 ed unisce ad esso la consueta, spiccata componente atmosferica, oltre ad un’eredità Metal (la cui importanza si avvia indubbiamente verso il viale del tramonto) decisamente meno martellante che in passato. Come detto, rispetto al debut-album possiamo assaporare sensazioni meno claustrofobiche e più sognanti: in “Conqueror”, Broadrick smussa gli angoli delle sue chitarre, rendendole fumose e non più rugginose, diminuendone la capacità di tagliare ma accentuandone la componente melodica; la voce, monotona e priva di eccessivi effetti e riverberi, ottiene invece un ruolo centrale e quando è impiegata domina costantemente la scena, senza essere troppo offuscata dai lamenti della 6-corde di Justin.
I sintetizzatori e le tastiere (decisive sia nella dilatata e rassegnata “Weightless & Horizontal” che nella conclusiva “Stanlow”) hanno corpo e spazio, e si mischiano alle chitarre nel formare un’atmosfera distesa (“Mother Earth”, addirittura, ha un feeling ‘positivo’ per larghi tratti) che ha ben poco da spartire con certe devastazioni sonore del passato (recente e meno recente) di Broadrick. I maggiori esponenti del cambiamento sono posti, simbolicamente, in apertura: “Old Year” si rivela poco convincente a causa della scarsa intensità con cui viene realizzata, mentre la title-track “Conqueror” è leggermente meglio focalizzata, e al suo interno si succedono non solo intuizioni da migliorare o, ancora meglio, eliminare (i vocalizzi languidi di Justin sono decisamente fuori luogo) ma anche qualità godibili già fin d’ora, tra cui il suono ‘drogato’ delle chitarre e l’inserimento di alcune solitarie note di piano nel finale.
Gli altri brani riescono, chi meglio chi peggio, ad intrecciare le nuove influenze con il sound del passato (“Brighteyes” è il brano più disilluso e lento, nonostante l’atmosfera sognante sia sempre preponderante sulla componente più nera dell’animo di Jesu), risultando adatti a mitigare la ‘svolta’ post-“Silver” e far abituare le orecchie al “Conqueror”-sound.
Un sound che dunque è in fase di transizione, in progressione, in evoluzione verso qualcosa che, ne sono convinto, saprà spiazzare positivamente i fans anche al prossimo appuntamento discografico: “Conqueror” è indiscutibilmente meno convincente e stupefacente di “Jesu”, ma ha buone idee dalla sua (prima fra esse la virata Shoegaze che, sebbene non realizzata alla perfezione, ci ha mostrato una band capace di risultare credibile in territori melodiosi e dreamy) e un marchio di garanzia, quello di J.K. Broadrick, che difficilmente tradisce le attese dei suoi appassionati.
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