- Steve Harris – Basso, Cori
- Dave Murray – Chitarra
- Adrian Smith – Chitarra, Cori
- Bruce Dickinson – Voce
- Nicko McBrain – Batteria
1. Aces High (4:29)
2. 2 Minutes to Midnight (4:59)
3. Losfer Words (Big 'Orra) (4:12)
4. Flash of the Blade (4:02)
5. The Duellists (6:06)
6. Back in the Village (5:00)
7. Powerslave (7:07)
8. Rime of the Ancient Mariner (13:34)
Powerslave
1984: gli Iron Maiden completano con “Powerslave” il loro personalissimo ‘filotto’ composto dalla pubblicazione di cinque studio-albums in un solo lustro, raggiungendo il culmine della loro ascesa, poiché reduci da due trionfi – quello britannico di “The Number of the Beast” e quello mondiale di “Piece of Mind”. Con il quinto disco, la Vergine di Ferro è definitivamente pronta a consolidare il proprio dominio sul mondo del Metal classico con un disco ancor più monumentale: la faraonica copertina di “Powerslave” è un segnale esplicito della volontà della band di arrivare sempre più in alto, ad uno status quasi leggendario, tanto che il tour di questo disco diverrà celebre come uno dei più enormi mai portati a termine da una Rock band – il cosiddetto “World Slavery Tour”, caratterizzato anch’esso dalle ambientazioni egizie, li terrà difatti impegnati dall’Agosto ’84 al Luglio ’85 con quasi 200 concerti.
“Powerslave” è la conclusione di un’era, il culmine della ricerca epico-classica che aveva caratterizzato i Maiden fin dall’ingresso di Dickinson: il quintetto londinese perfeziona il proprio stile personale, incurante del contemporaneo successo commerciale che caratterizzava il luccicante movimento Glam e delle innovazioni sperimentali che gettavano in quegli anni i semi per la nascita del Thrash, la radice da cui sarà originato il Metal estremo; quello di “Powerslave” è un sound assolutamente maestoso, drammatico e mitologico, il cui manifesto è rappresentato dalla storica “Rime of The Ancient Mariner”, tredici minuti che rivisitano il celeberrimo ed omonimo poema ottocentesco di Samuel Taylor Coleridge, e per certi versi ‘sdoganano’ un approccio più colto e storico al Metal, svincolandolo dai cliché ribelli in stile ‘steel, denim and leather’. In questo quinto capitolo di Harris e soci, tuttavia, non assistiamo solo al rimescolamento di idee già sentite, in quanto si possono già percepire i primi vagiti (prolungate sezioni strumentali, eccellente preparazione tecnica, strutture meno basilari) di quelle sperimentazioni Progressive che saranno esplorate con maggiore completezza nella seconda metà degli anni ’80 nei coraggiosi “Somewhere in Time” e “Seventh Son of a Seventh Son”.
Ad ogni modo, laddove “The Number of The Beast” e “Piece of Mind” erano album che apportavano cambiamenti significativi e sostanziali, “Powerslave” può essere considerato il disco delle conferme e del perfezionamento: per la prima volta nella sua storia, la band non cambia formazione da una registrazione all’altra e rimane salda, permettendo un affiatamento sempre maggiore (e sempre più decisivo) fra i vari membri del gruppo: Harris e Dickinson (quest’ultimo coadiuvato da Smith) si dividono equamente il songwriting (ognuno di loro firma una metà del disco e un paio di hits), la coppia ritmica è ormai espertissima e impeccabilmente rodata dalle 140 date del “World Piece Tour” (1983-’84) e, soprattutto, gli axe-men Dave Murray ed Adrian Smith si producono in esecuzioni di assoluto valore: mentre dal 1986 in avanti le loro fatiche saranno integrate da tastiere e sintetizzatori, in “Powerslave” il cuore degli Iron Maiden è ancora formato dalle loro fiammanti chitarre gemelle, oramai giunte ad un livello di complementarietà stupefacente, sia nelle ritmiche che nelle evoluzioni soliste, poiché i due virtuosi mostrano puntualmente idee melodiche di fondo assai valide, evitando accuratamente esibizionismi fini a sé stessi.
Al di là di questi discorsi di contorno, è importante chiarire come a far grande questo disco siano soprattutto le canzoni, a partire dalla fulminante “Aces High”, con ogni probabilità il miglior pezzo d’apertura mai scritto dalla band, narrante una battaglia aerea nei cieli inglesi, con i piloti della R.A.F. pronti ad infilarsi nei loro velivoli e a decollare per respingere un incursione dei caccia nemici: vorticosa e frenetica, graziata da un riffing variegato e da ritmiche incalzanti, “Aces High” ha melodie traboccanti adrenalina ed è esaltata dalle rapidissime pulsazioni del basso di Harris – le strofe sono tiratissime, il bridge è tumultuoso e ricco d’echi turbinanti, mentre il ritornello è un liberatorio e vertiginoso capolavoro in cui Dickinson si spinge sempre più in alto echeggiando le traiettorie degli ‘assi volanti’ suoi compatrioti: un solo ascolto è sufficiente a cancellare gli eventuali dubbi sul perché questo sia, da più di vent’anni, uno dei brani più acclamati degli Iron Maiden.
Sebbene meno clamorosa sotto il profilo artistico, “2 Minutes to Midnight” è perfino più famosa della traccia precedente, essendo stata il singolo di lancio del disco e un classico di innumerevoli live-performance: si tratta di un brano che affronta nuovamente un tema guerresco, ma da un punto di vista più critico, che prende in considerazione i rischi dell’escalation nucleare: musicalmente, “2 Minutes...” gioca sulla contrapposizione tra i rallentamenti del bridge e le accelerazioni compatte del ritornello e delle strofe, oltre che sulla gran prova vocale di Bruce Dickinson, il cui talento non è però necessario per la terza “Losfer Words”, strumentale non particolarmente smagliante le cui fasi iniziali e conclusive concedono ampio spazio agli intricati dialoghi fra chitarre, batteria e basso, mentre svolte solistiche ne caratterizzano la fase mediana.
“Flash of the Blade” e “The Duellists”, entrambi episodi molto validi, ritornano ai temi dello scontro e del duello, ma li contestualizzano in ambientazioni più datate e passionali, avendo come protagonisti degli spadaccini pronti a combattere per onore e vendetta: entrambi i brani sono dominati da lunghi scambi e assoli delle chitarre e da strofe piuttosto cupe e tenebrose, ed hanno in comune un certo legame con l’ambiente cinematografico –“Flash of the Blade” farà parte, l’anno successivo, della colonna sonora scelta da Dario Argento per “Phenomena”, mentre “The Duellists” è ispirata al primo lungometraggio del rinomato regista inglese Ridley Scott. L’amore degli Iron Maiden per simili ‘recuperi’ è valido anche per il mondo televisivo: “Back in The Village”, la sesta traccia dell’album, si rifà infatti ad una serie tv degli anni ‘70, peraltro già introdotta nel brano “The Prisoner” (contenuta in “The Number of the Beast”); solitamente snobbata da pubblico e critica, “Back in the Village” può essere considerata come una versione peggio riuscita di “Aces High”, di cui condivide velocità e intensità: paga a caro prezzo, però, la scarsa efficacia del refrain, il cui demerito è quello della banalità e della ripetitività (qui un semplice peccato occasionale, ma destinato a diventare, per la band, una fastidiosa costante nel corso degli anni Novanta e Duemila).
Il finale del disco pone l’accento sul feeling epico e grandioso già anticipato ad inizio recensione: “Powerslave”, introdotta da una malefica risata, è l’unico capitolo del disco ad avere effettivamente dei legami col mondo dei faraoni, e paga il suo debito con l’Antico Egitto sia inserendo atmosfere orientaleggianti nel corposo riffing, che giocando con spettrali cori come sfondo per il ritornello: l’assolo è uno dei più famosi del gruppo, soprattutto per merito del suo andamento in crescendo – l’introduzione lenta e sinuosa di Murray è accompagnata dagli onirici arpeggi di Smith, ma basta poco perché i due musicisti si scatenino, producendosi in una successione di esaltanti solos che non mancavano mai d’infiammare le platee durante i concerti del gruppo.
Atmosfere addirittura più imponenti e soprannaturali caratterizzano, infine, “Rime of the Ancient Mariner”, delle cui origini abbiamo già parlato: questa possente opera, che sfiora il quarto d’ora di durata, prende in prestito citazioni letterali dal capolavoro romantico di Coleridge e le alterna a liriche scritte ad hoc da Steve Harris per raccontare succintamente la vicenda originale: estremamente evocativa e descrittiva, ‘la ballata del vecchio marinaio’ cambia più volte faccia nel corso del suo interminabile svolgimento, incorporando perfino una lunga e teatrale pausa atmosferica corredata da una solenne recitazione, dagli scricchiolii del legno della barca e da un tanto dimesso quanto inquietante accompagnamento strumentale.
In definitiva, “Powerslave” è il disco che delinea con il massimo grado di perfezione formale le strutture di quello stile che gli Iron Maiden svilupparono nel loro periodo d’oro, tra il 1982 e il 1985: il gran numero di canzoni che sarebbero divenute ‘classiche’ è testimonianza di come questo sia uno dei momenti più felici degli Iron Maiden sotto il profilo artistico; “Powerslave” è, appunto, l’apice di questa situazione di massima creatività: visti in quest’ottica, i pur fondamentali “The Number of the Beast” e “Piece of Mind” non paiono altro che il preludio ad un disco così esageratamente monumentale che la band stessa si accorgerà di aver raggiunto i propri limiti in tal senso, e devierà verso nuove, più sperimentali direzioni con il futuristico “Somewhere in Time” del 1986. Ma questa è un’altra storia...