- Anders Fridén - voce
- Björn Gelotte - chitarra
- Daniel Svensson - batteria
- Jesper Strömblad - chitarra
- Peter Iwers - basso
1. Embody the Invisible
2. Ordinary Story
3. Scorn
4. Colony
5. Zombie Inc.
6. Pallar Anders Visa
7. Coerced Coexistance
8. Resin
9. Behind Space ‘99
10. Inspid 2000
11. The New Word
Colony
Gli In Flames si presentano all'appuntamento del quarto capitolo discografico, intitolato Colony, che come vedremo va anche oltre il connubio fra heavy e melodic death, focalizzandosi su questi elementi: chords energici e d’impatto sovrastati da riff orecchiabili e graffianti, batteria intensissima (merito del nuovo acquisto Daniel “drum drum” Svensson subentrato al posto di Gelotte che da ora si occupa soltanto della chitarra), assoli taglienti e virtuosi, tanta potenza (merito di un sound ancora più d'impatto ed energico) e produzione impeccabile (merito di Fredrik Nordström e dei suoi eccezionali studio).
Praticamente quasi un fan service, davvero ben fatto. Non è un caso che molti fan attuali degli In Flames abbiano iniziato ad ascoltarli proprio partendo da quest’album, facilmente accessibile ed assimilabile, e ne siano rimasti affezionati, mentre fra quelli di vecchia data c'è chi lo ha schifato.
Rispetto a Whoracle, si percepisce in Colony una virata di stile che preferisce la potenza immediata, le melodie d'impatto e a tratti il tecnicismo negli assoli, con un songwriting generalmente più tagliente e bruciante. Le asprezze ritmiche che legavano il gruppo al death metal cedono il posto o a varianti più diluite e melodicizzate o a chords più esplosivi che fungono da muro sonoro su cui costruire assoli veloci e melodici. Certi fraseggi sono inoltre vicini al metalcore, tant'è che influenzeranno poi l'ondata di melodic metalcore americano degli anni 2000 - ed indirettamente gli epigoni europei successivi.
Il growl/scream di Fridén d'altro canto non è mai stato così potente e feroce ma tradisce un'attitudine molto più easy-listening e fedele alle linee melodiche dei ritornelli. Si tratta della migliore prestazione growler in tutta la sua carriera e forse fra le migliori di sempre fra tutti i growlers per la sua potenza e pulizia, ma è pur sempre un growl/scream e come tale non appetibile a tutti e i momenti in cui sembra che forse una voce pulita altrettanto dinamica si sarebbe adattata meglio saltano fuori ogni tanto.
L'elemento folk che emergeva di tanto in tanto arricchendo le canzoni, invece, viene messo da parte, con solo una breve strumentale a ricordarlo.
La virata di stile intrapresa con Colony è certamente dovuta al cambio di formazione, con Svensson ad accentuare considerevolmente la forza della batteria e Gelotte che si occupa delle chitarre assieme a Strömblad; fra l'altro, Gelotte era ansioso di mostrare la sua tecnica e così in quest'album spesso sfodera assoli che la mettono in luce.
Peter Iwers invece non partecipa nella composizione e al basso è poco presente. Ma forse sarebbe andata lo stesso così, o comunque in maniera molto simile. Anche la produzione ha il suo ruolo, rendendo le distorsioni delle chitarre particolarmente energiche ed enfatizzanto i colpi dei pedali.
Un'evoluzione stilistica molto potente e d'impatto dunque, significativamente personale e difficilmente inquadrabile senza far storcere il naso a qualcuno, ai puristi del melodic death metal per via degli elementi stilistici alla base del gruppo e a chi con heavy metal è più legato ai canoni del British metal ottantiano per via dell'attitudine compositiva e melodica differente: ma bisogna comunque tenere conto della differente sensibilità melodica scandinava, della differente interpretazione data da un gruppo svedese alle soglie del nuovo millennio di certi stilemi e soprattutto dal fatto che gli In Flames hanno uno stile in continua evoluzione in cui sono confluite influenze differenti nel corso della carriera, masticate e rimescolate per partorire così uno stile apprezzabilmente personale e riconoscibile: per questo anche sarebbe troppo semplicistico limitarsi a definirlo solo come un ibrido fra heavy metal e melodic death metal.
La bella e angosciante cover di Marshall è nuovamente poco rispecchiante la sonorità di fondo dell’album (ma in fondo non tutti sono Travis Smith), tranne che in alcuni momenti particolari. Embody the Invisible è un ottimo inizio, melodico e vigoroso, con una buona dose di riff memorabili e forte orecchiabilità up-to-face, con un buon gioco di assoli fra la tastiera (che nel resto dell'album però viene relegata ad un appena percettibile background atmosferico) e la chitarra di forza. Neanche un secondo che finisce, e subito in lontananza si sente la batteria di Svensson accrescere: è Ordinary Story, praticamente una ballad metal, con i suoi riff intensi, gli arpeggi clean solitari, un pianoforte malinconico in lontananza, Fridén che alterna canto pulito e la rabbia del suo growl/scream, fino all’affascinante schivo interludio dopo l’assolo. Purtroppo, anche se la canzone è molto piacevole da ascoltare, l’emotività del brano risulta alquanto banale, soprattutto per il testo, e il canto pulito di Fridén può essere bello ad ascoltarsi, ma un po’ plasticoso e fine a sé stesso, suonando poco genuino.
Mentre le chitarre si vanno consumando in chiusura il brano si interrompe seccamente per far spazio alla pesante Scorn, con un riff iniziale veloce e ripetuto e batteria sparata, in linea con le radici melodic death metal. Successivamente però la sezione ritmica si fa più intricata e raffinata, mentre i riff si diversificano con il consueto gioco di chitarra principale melodica in primo piano sovrastante chords ripetuti a collegare idealmente scene e periodi musicali differenti.
La titletrack, con le sue atmosfere incupite, dopo l’intro composto da un organo hammond, dai piatti di Svensson e da una chitarra in un breve slide, attacca con alcuni dei riff più sensazionali mai partoriti dagli In Flames, ben supportati dall’intensissima batteria. La struttura del brano alla fine risulta purtroppo un po’ ripetitiva, mentre va segnalata la suggestiva idea di Fridén di recitare in un monologo pulito alcune parti del testo, idea che sarebbe stata riutilizzata sporadicamente (e che nei due album successivi sarebbe stata un po’ accantonata). L'effetto elettronico occasionalmente ripetuto accentua l'aura da inferno tecnologico del brano, ma a catalizzare l'attenzione sono soprattutto la batteria intensissima e, come già detto, le chitarre furenti.
Giungiamo dunque a Zombie inc., probabilmente il brano più famoso degli In Flames di questo periodo, praticamente (era) il loro inno: e i riff taglientissimi non sfigurano nel presentarla alla candidatura per questo titolo, mentre l’assolo che si presenta meditato di sola chitarra clean per poi scatenarsi con una leggera punta di sfarzo costituisce una buona raccomandazione per aggiudicarselo.
Breve intermezzo acustico con le atmosfere solitarie e gli arpeggi nostalgici di Pallar Anders Visa, tutto sommato un esercizio di stile trascurabile, per poi tornare subito su ambiti più pesanti ma sempre melodici con Coerced coexistance, in cui figura Kee Marcello degli Europe che suona la seconda parte dell’assolo, con un chorus vissutissimo dove Fridén sfrutta il suo growl in forte riverbero, con un effetto finale azzeccatissimo; per il resto il brano non aggiunge molto a quanto già detto e si nota per la maggior parte proprio per il ritornello emozionante.
Resin è molto melodica ma meno incisivia degli altri brani e anche in questo caso non dice nulla di nuovo, ad ogni modo l’hammond tesse atmosfere abbastanza palpabili con mano, ed è in questo brano che forse assistiamo alla sua migliore esecuzione, o quanto meno una delle migliori.
Veniamo ora alla riedizione di Behind Space: dopo l’intro di effetti da caverna sotterranea parte subito la furia death metal. Ma questo riarrangiamento finisce per sembrare troppo pastoso, e la batteria di Svensson troppo forzata a pestare. In compenso l’assolo è reso molto bene rispetto all’originale su Lunar Strain, anche per l’hammond ben piazzato. Behind Space è probabilmente un brano “calcolato”, con buon occhio della Nuclear Blast, con cui si sarebbe dovuto invogliare ad ascoltare anche Lunar Strain o far notare Colony da chi è rimasto a quell’album e vede con diffidenza l'evoluzione stilistica degli In Flames avvenuta in questi anni (e che li ha portati ad allontanarsi sempre più dal melodic death metal canonico).
Il calo affrontato con le ultime canzoni viene ripreso da Insipid 2000, con un chorus simile a quello di Coerced Coexistence ma meno echeggiante, comunque ben fatto; e ricompaiono anche i monologhi già citati per Colony, seppur in brevissime apparizioni. Il brano nel complesso è un po’ ripetitivo ma molto trascinante con i suoi riff potentissimi e ultra-catchy, fra i più accattivanti del disco.
Chiusura con l'estrema The New Word, che curiosamente all’interno del booklet è intitolata, per un errore di stampa, The New World (nome scritto esatto nel testo e nella tracklist sul retro della custodia in ogni caso). È uno dei brani più pesanti di tutto il lotto, anche piuttosto oscura, ma i suoi riff cavernosi mantengono sempre un piglio di grande impatto. Famoso è il suo assolo velocissimo, tuttavia non certo tanto incredibile come si dice (qualcuno disse che da solo valeva l’acquisto dell’album... non credeteci neanche per un attimo a questa mega-iperbole) e comunque eccessivamente banale a causa della sua sboronia e della sua poca varietà.
Nelle edizioni di limitate di Colony sono presenti come bonus track Man Made God oppure la riedizione ’99 di Clad in shadows. La prima è una strumentale metal, dal titolo ambiguo (“l’uomo fece Dio” oppure “uomo fatto Dio”?) in quanto impossibile a verificarsi con un testo interpretabile, richiama qualcosa dai precedenti due album degli In Flames ed è ovviamente più pesante, ma nonostante questo ha un groove altissimo e alcuni intermezzi acustici fantastici. La seconda è un riarrangiamento nettamente migliore del precedente su Lunar Strain, grazie al solito Svensson che domina l’impianto di base con i suoi pesanti pedali e a Fridén che fa dimenticare con la sua interpretazione potente e straziante (in senso positivo) lo Stanne dell’epoca.
In definitiva Colony colpisce in modo micidiale senza più mollare, ma d'altro canto a lungo andare inizia a mostrarsi un ripetersi di sonorità prevedibili e in molti casi stancanti, senza quell’originalità che aveva contraddistinto all’epoca The Jester Race, senza quella profondità e personalità che potrebbero avere, per esempio, i Dark Tranquillity con i loro album in questo periodo. Per fare un confronto la sua svolta è certo più impulsiva ed energica del totale cambiamento dei cugini Dark Tranquillity (vedi Projector), con atmosfere meno malinconiche e con un ruolo della tastiera molto meno pronunciato, positivamente più incisivo nel complesso, ma negativamente più formale e di maniera. Eppure rimane un disco immediatissimo, che continua a marcare colpi nella mente di chi ascolta con la sua potenza, ogni suo colpo è un centro difficile da dimenticare e anche se il disco cala nella seconda parte, regala all'inizio delle ottime canzoni e ugualmente da prova di uno stile molto personale.
Salutiamo intanto Sundin, che ha tradotto i testi su indicazioni originali di Fridén, in quanto è l’ultimo album in cui partecipa alle loro stesure.