- Tim Owens - Voce
- Jon Schaffer - Chitarra
- Ralph Satolla - Chitarra
- James MacDonough - Basso
- Richard Christy - Batteria
Disco 1
1. The Star-Spangled Banner
2. Declaration Day
3. When The Eagle Cries
4. The Reckoning (Don’t Tread On Me)
5. Greenface
6. Attila
7. Red Baron / Blue Max
8. Hollow Man
9. Valley Forge
10. Waterloo
11. When The Eagle Cries (unplugged)
Disco 2
1. The Devil To Pay
2. Hold At All Costs
3. High Water Mark
The Glorious Burden
Trovandosi di fronte alla fatica degli Iced Earth datata 2004 non si sapeva precisamente cosa aspettarsi. Certo alle sei corde è rimasto un certo Jon Schaffer il quale componendo il 99% della musica offre determinate garanzie, ma la perdita di un cantante con la voce calda, espressiva ed originale come Matt Barlow rischiava di farsi sentire parecchio. Anche perché una buona parte del successo degli Iced Earth è dovuta alle sue corde vocali.
Non si nasconde che The Glorious Burden è una mezza delusione, perché se al tempo si poteva difendere Horror Show dalle critiche esagerate che aveva ricevuto, qui ci sono troppe cose che non vanno. Dopo un masterpiece come Something Wicked This Way Comes che ancora troneggia incontrastato nella discografia del gruppo statunitense ci stava che il suo successore, dovendo fronteggiare il paragone, ne uscisse sminuito. Ma Horror Show è e rimane un cd che pur pagando un corpo centrale formato da tracce che puzzano troppo di filler contiene canzoni ottime quali Wolf, Dracula e Frankenstein e altre che non avrebbero sfigurato sul suo illustre predecessore come le originalissime Damien e The Phantom Opera Ghost. Su The Glorious Burden si assiste a una preoccupante mancanza di idee veramente originali e un ancora più preoccupante perdita dei caratteri distintivi che avevano fatto entrare gli Iced Earth con merito nell’olimpo del metallo.
Ma iniziamo dunque ad analizzare l’album in questione (nella versione limitata con 2 cd). L’impatto non potrebbe essere peggiore…si inserisce il primo cd e parte l’inno americano in versione Metal, la prima delle pacchianate con cui il buon Jon ha deciso di “deliziarci” su questo platter. Fortunatamente la traccia successiva è di tutt’altra pasta e con incedere cadenzato parte Declaration Day. Piacevole sorpresa è il canto di Tim Owens che si amalgama perfettamente alla musica in modo incisivo concedendosi anche di cantare il terzo verse in modalità Halford. La song in questione scorre veloce e in modo piacevole grazie a un ritornello molto melodico che si pianta subito in testa ma lascia un leggerissimo senso di incompiutezza forse dovuto alla monotonia del ritmo che non fa notare alcuna accelerazione. E qui si arriva alla seconda delle pacchianate violente che ci propina Schaffer: When The Eagle Cry. Una ballad definibile come “sfaltamaroni”, noiosa, esageratamente patriottica e che può “vantare” di un testo puerile e oltremodo buonista. Stendendo un velo pietoso sulla suddetta track si arriva al singolo apripista dell’album: The Reckoning (Don’t Tread On Me). Qui finalmente Schaffer & company calcano il piede sull’acceleratore e fin dalla partenza si è travolti dal ritornello veloce e tagliente nella sezione ritmica e melodico e gustoso per quel che riguarda le linee vocali. Subito dopo si viene aggrediti da un riff violento in pura tradizione Iced Earth seguito dalle triplette che sono ormai il trademark di Schaffer. Il verse molto aggressivo permette a Owens di dare il meglio di sé con vocals stridenti e cattivi e si ritorna al ritornello dove Richard Christy con il suo solito buongusto si erge sulle pelli imperando e impreziosendo il tutto con un bel ritmo tenuto sul ride. Da notare anche il classico intermezzo atmosferico e cupo in mezzo alla canzone il cui climax ci porta alla ripartenza rapida che ci fa avviare verso la fine di questa buona canzone. Subito dopo si ha Greenface, una canzone che vuole essere aggressiva e che riesce solo a puzzare quanto una discarica di filler. Sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista del testo si ha la sensazione di una banalità disarmante. Si arriva cosi ad Attila, canzone che inizia con incedere epico scandito dai tom di Christy e accompagnato da una bella melodia ai quali si sovrappone dopo alcuni secondi un bel coro che ricorda molto l’intro del primo album dei Demons & Wizards. A questo proposito su quest’album si nota ancora di più l’influenza sul songwriting di Jon che ha avuto il side project con Hansi Kürsch specie nei ritornelli che sono spesso un botta e risposta tra un coro e Owens come su Declaration Day e The Reckoning. Tornando ad Attila si nota una bella ritmica del verse e l’ottima melodia del ritornello. Molto bello anche il botta e risposta dell’esercito unno con quello romano in cui il primo è interpretato da una voce quasi growl in cui si riconosce subito la persona di Matt Barlow grazie alla sua timbrica inimitabile e il secondo è interpretato da un coro che canta quasi in canto gregoriano. Promossa a pieni voti.
Si giunge cosi a Red Baron/Blue Max che, rapida, alterna momenti pregevoli come l’intermezzo intorno al secondo minuto che sfocia in una ripartenza esaltante e altri un po’ meno gloriosi come il ritornello bruttino. Segue poi l’autobiografica Hollow Man che può essere facilmente accostata a Ghost Of Freedom di Horror Show sia perché è anch’essa l’unica canzone dell’album che esce dalla tematica trattata che per la sua candidatura a prendere il posto dell’inarrivabile Watching Over Me con risultati davvero molto magri. Si procede poi con Valley Forge, canzone senza infamia e senza lode che non suona male senza mai riuscire comunque a prendere, nonostante un ritornello niente male. Ed eccoci ad un altro pezzo forte dell’album: Waterloo. Impreziosito da melodie molto belle sia nel verse che nel ritornello lascia il segno pur essendo un po’ troppo lunga per quel che aveva effettivamente da dire. Conclude il primo dei due cd la versione unplugged di When The Eagle Cries che riesce nell’impresa di essere più noiosa della versione normale.
Sul secondo cd troviamo la trilogia della battaglia di Gettysburg registrata con l’orchesta filarmonica di Praga per un totale di 32 minuti. Fortunatamente Jon riesce ad evitare la trappola di finire nel troppo pomposo e pacchiano, sfornandoci tre canzoni ad alto contenuto emotivo. Le danze si aprono con The Devil To Pay, che ci proietta subito nel culmine della guerra civile americana e risulta convincente con l’orchestra che si occupa di sottolineare le melodie dei riff fornendo una piacevole atmosfera maestosa. Hold At All Cost inizia con una struggente parte lenta in cui Tim interpreta un soldato il cui migliore amico fa parte dei soldati nemici e poi fa notare una partenza bruciante con un riff aggressivissimo in puro stile Iced Earth, sostenuto da un’ottima parte di basso che si fa notare. Il ritornello è molto melodico e corona una canzone che, pur non essendo eccelsa, si mantiene su buoni livelli. A conclusione della trilogia si ha il più epico dei tre brani, High Water Mark, che rende al meglio verso metà quando narra musicalmente l’attacco finale in modo molto epico alternando anche melodie tradizionali dei due campi (come Dixie per i sudisti) per poi sfociare nel discorso del general Lee seguito da un riff molto cadenzato che esprime molto bene l’incedere dell’attacco. Promossa dunque questa trilogia anche se non a pieni voti per alcune pecche come quella di essere troppo “diluita”: i verse durano troppo e portano alla noia e anche alcuni climax strumentali sviluppati con l’ausilio dell’orchestra sono troppo lunghi e alla lunga pedanti. Purtroppo questo è un problema che permea quasi tutte le tracce di questo album e uno dei suoi più grandi difetti: i verse sono immensamente lunghi. Si può portare come esempio Waterloo in cui il verse è composto da 4 giri completi del riff…decisamente troppo. Due o tre sarebbero stati più che sufficienti ed avrebbero evitato quella sgradevole sensazione di ripetitività che si prova.
Purtroppo questo non è l’unico difetto di The Glorious Burden. Prima di tutto la produzione non è all’altezza delle precedenti e a farne le spese è la potenza caratteristica degli Iced Earth. Se in Something Wicked This Way Comes le chitarre erano una bomba per i timpani, ora arrivano al massimo ad essere una carabina e non è stato certamente fatto per adeguarsi ai temi storici trattati. Basta mettere su l’inizio della strumentale 1776 per notare la differenza. Inoltre manca il vero e proprio “pugno in faccia”, la canzone che ti dà voglia di pogare contro il muro come potevano essere My Own Saviour o Disciples Of The Lie. Con questo album gli Iced Earth rinunciano parzialmente al lato Thrash della loro musica a favore di quello Power ottenendo come risultato di essere più mielosi e meno incisivi, taglienti, scelta che molto probabilmente è dovuta alla timbrica di Owens, molto più ariosa e meno cupa di quella di Barlow. Inoltre la presenza troppo grande di canzoni banali che sembrano filler non fa altro che lasciare l’amaro in bocca. Altro fattore preoccupante è dato dal fatto che Attila e Waterloo sono le uniche due canzoni scritte con la partecipazione di Barlow e risultano anche le più convincenti ed originali. Questo è un buon album Power, molto piacevole e a tratti anche ottimo, Tim Owens non ha deluso nonostante sostituire Barlow sia un’impresa ardua ma non si può soprassedere sul fatto che quest’album sia firmato Iced Earth e da loro ci si aspetta ben altro che un buon disco Power, ci si aspetta un disco da Iced Earth e appunto per il loro status il loro il voto non va oltre il 69.
Per quel che riguarda il lato extra musicale non ci si può proprio lamentare: la copertina e il libretto sono splendidamente illustrati e completissimi. Per ogni canzone si ha un’illustrazione fatta davvero bene (anche se l’aquila con la lacrimuccia che cola accanto alle torri gemelle poteva essere evitata) e per la trilogia in mezzo al testo ci sono anche le spiegazioni di Schaffer sulle scelte musicali (in particolare i richiami alle canzoni tradizionali) e che eventi vogliono esprimere.
Si conclude consigliando a chi volesse comprare The Glorious Burden di evitare come la peste l’edizione con 2 cd poiché contiene in più solo l’inno americano, una filler (Greenface) e la versione unplugged dell’obrobriosa When The Eagle Cry.