:
- Nick - voce
- Marco - chitarra
- Jacopo - chitarra
- Becko - basso e voce
- Ivan - batteria
Tracklist:
1. Some like it cold
2. Ever the same, and always will be
3. Call me sick boy
4. An endless serenade
5. Under this red sky
6. Good mourning, honey
7. Consider me alive
8. Stuck inside
9. Johnny's light sucks
10. Six years home
Six Years Home
Se ci fosse consentito di coniare il termine experimental screamo, gli Hopes Die Last dovrebbero appropriarsene di diritto: infatti, mentre gli anglofoni di natura ci propinano un emo/screamo estivo ma piuttosto naif (The Blackout) oppure un emocore molto curato e convenzionale ma altrettanto sterile (Hand To Hand), i nostri connazionali non inseguono la via dell’easy listening a tutti i costi ma optano per soluzioni decisamente più ricercate, alternative, sicuramente personali. Fossero britannici o provenissero d’oltreoceano, a quest’ora se ne parlerebbe già come di fenomeni assoluti della musica internazionale; fatto sta che fenomeni assoluti della musica internazionale probabilmente non lo sono, ma certamente, dopo questo intrigante e curato Six Years Home, è d’obbligo annoverarli tra le più promettenti e interessanti realtà del genere emo/screamo. Daniele, Becko, Marco, Ivan, Jacopo, ovvero 5 ragazzi romani poco più che ventenni, recentemente entrati a far parte del roster della lungimirante Wynona Records, potranno certamente essere piuttosto orgogliosi del loro lavoro: per quanto manifesti ancora qualche strascico di ovvietà adolescenziali (guai se così non fosse, vista la loro giovanissima età), Six Years Home è album decisamente valido, la cui forza, più che nella completezza e compattezza delle sue 10 tracce (9 a dire il vero, visto l’intermezzo di An Endless Serenade), risiede nei numerosi spunti futuribili che offre, spaziando attraverso massicce strutture post-hardcore (la feroce successione di accelerazioni e rallentamenti dà vita ad effetti d’urto dall’eccellente resa sonora), incisi catchy in perfetto stile emo, delicati intermezzi di sole chitarra e batteria molto prossimi a certo alternative rock di provenienza americana, esplosive sezioni ritmiche in puro blastbeating con tanto di riffs dal vago (e sottolineiamo vago) sentore metallico.
Gli episodi migliori dell’album sono situati all’estremità dello stesso: nella tripletta iniziale gli Hopes Die Last passano con disinvoltura dallo screamo più intransigente (Some like it cold, con quelle suadenti linee di chitarra di cui è un vero piacere poterne seguirne lo svolgersi per tutta la durata del brano) ad un emo rock più meditativo di scuola canadese (Ever the same and always will be, con un’inattesa ma convincente apertura ai growls) ad un post-hardcore stridente e quasi metallico (Call me sick boy, con la sorprendente introduzione di qualche accordo di tastiera in appoggio alla reprise conclusiva), mentre nel finale fanno comparsa addirittura il sax (il cui assolo in chiusura di Johnny's light sucks rivaluta e sconvolge l’intera prospettiva del brano) e un inedito groove su base elettronica (Six years home, ottimamente armonizzato con alcuni deliziosi arpeggi di chitarra).
Nonostante questi evidente punti a suo favore, Six Years Home lascia però alcune sensazioni negative: per quanto non ci siano tracce palesemente deboli (forse la sola, a tratti caotica, Good Morning Honey), sembra quasi che la band che fosse incerta se prendere la via più eminentemente sperimentale, azzardando soluzioni realmente innovative ed identificative (su tutte, appunto, Johnny’s Light Sucks e Six Years Home, ma anche la raffinatissima e delicatissima ballad Consider Me Alive), oppure rimanere ancorata ai canoni dei generi sopraccitati (Under This Red Sky, al di là di uno strepitoso finale di pezzo), rielaborandoli in maniera certamente personale (semplicemente strepitosi i giri di chitarra di Stuck Inside My Head, a testimonianza di una serpeggiante indole rock tutta da scoprire) ma senza quella determinazione in grado in sconvolgerli, se non proprio rivoluzionarli. Sembra proprio che questi 5 ragazzi romani fossero sul ciglio di una scelta che, crediamo, non abbiano voluto perseguire interamente, cercando quindi una via di mezzo che consistesse nel rispettare in parte i confini del loro genere d’appartenenza introducendo però arricchimenti fortemente caratteristici così da lasciar intravedere le loro (ancora) inesplorate potenzialità. A volte si ha come l’impressione che abbiano voluto eccedere nella composizione, a volte si ha la sensazione opposta, ovvero che abbiano voluto trattenersi fin troppo: in ogni caso, si tratta comunque di una scelta discografica comprensibile e giustificabile per 5 giovani musicisti alle prese col loro debut album, in cerca quindi di una propria dimensione artistica e nella speranza di consolidare e allargare la propria fan base, finora costruita sul sudore di centinaia di concerti live, sull’eclatante numero di contatti sul proprio myspace, sul successo di un EP ancora grezzo ma certamente promettente.
Due considerazioni ancora. Innanzitutto, è d’obbligo sottolineare lo straordinario lavoro compiuto al mixaggio e, più in generale, in sede di registrazione (per questo aspetto complimenti a Daniele Autore, cantante/chitarrista dei Vanilla Sky cui è stata affidata la produzione): per tutta la durata dell’album, infatti, il sound si mantiene sempre nitido, vivido, tremendamente compatto (nel caso specifico basti ascoltare l’opener Some Like It Cold), e allo stesso tempo non mancano effetti noise, abrasioni, distorsioni che riescano a riprodurne ed esaltarne al meglio i momenti emotivamente salienti (esempio significativo ne è proprio la traccia di chiusura Six Years Home) . Al contrario, stupisce negativamente come il platter abbia una durata relativamente risicata: 10 pezzi sarebbero di per sé il minimo sindacale per offrire al pubblico una valida ragione di acquisto, se a questa considerazioni si aggiunge il fatto che traccia 4 è una semplice introduzione alla successiva (per quanto ben fatta, niente da obiettare a proposito) e che gli Hopes Die Last sembrano manifestare un grande talento ed una creatività a tratti vulcanica diventa pressoché impossibile giustificare o quantomeno spiegarsi una scelta discografica che penalizza sia la band, limitandone il repertorio, sia i potenziali acquirenti, ben più propensi ad investire i propri (pochi) quattrini per album numericamente (in termini di tracce o di minutaggio, dipende dalle circostanze naturalmente ma il significato è lo stesso) più corposi.
Alla fine della fiera il responso non può che essere positivo a metà: se da un lato Six Years Home è indubbiamente un album valido e complessivamente molto convincente, in alcuni episodi davvero esaltante, dall’altro lato ha il grave difetto di lasciare in dote una sensazione di parziale incompiutezza che certamente si ripercuote in negativo sull’intera prospettiva dell’album (per chi ama ascoltare i full length nella loro interezza, senza skip e senza stop, l’impressione artistica finale è spesso determinante). Tuttavia, sarebbe davvero assurdo pensare che quest’ultima possa offuscare i meriti di una formazione italiana che si dimostra ampiamente in grado di affrontare con competitività e assoluta consapevolezza dei propri mezzi tecnici il mercato internazionale: in un genere ancora in cerca di un padrone assoluto (forse i soli Underoath, sebbene su frequenze parzialmente differenti), con questo promettente Six Years Home gli Hopes Die Last pongono la loro più seria candidatura. In attesa del loro prossimo, vero, capolavoro.
Giudizio finale, 7+: un buon lavoro da parte di una band al debutto che mostra sin d’ora grinta e classe per un futuro più che roseo; già evidenziati con un “+” i brillanti spunti tecnici, ancora un paio di tracce sugli ottimi livelli della terna iniziale e l’album avrebbe sicuramente avuto ben altro spessore. Alla prossima, con fiducia.