Andy Deris - Vocals
Michael Weikath - Guitars
Sascha Gerstner - Guitars
Markus Grosskopf - Bass
Dani Löble - Drums
CD1
1. The King for a 1000 Years
2. The Invisible Man
3. Born on Judgment Day
4. Pleasure Drone
5. Mrs. God
6. Silent Rain
CD2
1. Occasion Avenue
2. Light the Universe (feat. Candice Night)
3. Do You Know What You're Fighting 4?
4. Come Alive
5. Shade in the Shadow
6. Get It Up
7. My Life 4 1 More Day
Keeper Of the Seven Keys: the Legacy
Una scommessa persa in partenza.
È inutile negarlo: era proprio necessario usare come ancora di salvataggio il nome dei due cavalli di battaglia del passato per il nuovo album delle zucche?
Una scelta commerciale per attirare più attenzione sull’uscita di questo disco? Probabile.
Una scusa per fare un notevole passo indietro riguardo allo stile e per compiere un clamoroso ritorno ai vecchi tempi? Cos’è questo Keeper Of The Seven Keys: The Legacy allora? Semplicemente la nuova fatica delle zucche più famose del mondo.
I tempi d’oro di Keeper I & II sono oramai un vecchio ricordo: di quella formazione rimangono soltanto l’amato/odiato Michael Weikath e Markus Grosskopf e obbiettivamente questo è già una motivazione più che plausibile per condannare la scelta di rispolverare il nome di Keeper. Pesano davvero come macigni le assenze di Kai Hansen (dai più considerato la vera mente degli Helloween, tesi giustificabile considerando quello che ha fatto e che sta facendo con i suoi Gamma Ray e con altri suoi progetti) e di Michael Kiske, voce strepitosa dei tempi d’oro delle zucche da sempre rimpianto dai fans della band tedesca.
Altra considerazione non da poco: in tutti questi anni gli Helloween si sono evoluti sempre di più verso un happy metal sempre più semplice ed essenziale, distante anni luce da quell’ Happy/Power dei tempi dei primi due capitoli della saga Keeper.
Dopo queste due premesse cerchiamo di capire cosa ci troviamo davanti.
Il disco, o meglio, i dischi ci presentano una band nonostante tutto in forma e sopravvissuta ai continui cambi di line-up degli ultimi anni ma che non può che uscire sconfitta da questa sfida che hanno coraggiosamente deciso di affrontare.
Alcuni pezzi che in questo disco ci vengono proposti suonano davvero molto freschi e piacevoli come pochi altri delle zucche dell’ultimo periodo (specialmente le due suite, davvero fantastiche), altri invece appaiono scontati e deboli e legati al filone non troppo esaltate di Rabbit Don’t Come Easy.
Ulteriore considerazione: Andy deris è Andy Deris, non è Michael Kiske.
Il sostituto di Kiske, oramai nella band da più di dieci anni, ha il suo stile nel cantare ed è inutile che Weikath continui a scrivere pezzi che ricordino il passato perché l’abbinamento voce di Deris - stile vecchio non ha mai funzionato e anche in questo ultimo lavoro lo si può facilmente notare.
Ci si potrebbe perdere in considerazioni del genere per ore ed ore, quindi è meglio passare all’analisi del disco.
Inanzitutto il lavoro è diviso in due dischi, uno con sei canzoni e l’altro con sette e anche qui la scelta è a dir poco discutibile dividere il lavoro in due dischi da così poche canzoni ma può anche starci se inteso come un tentativo di valorizzare meglio certi pezzi che in un disco solo avrebbero trovato davvero poco spazio.
Il primo disco di apre con la suite The King For 1000 Years, canzone davvero stupenda in tutti i suoi tredici minuti. Il pezzo scorre davvero in modo molto piacevole in ogni suo secondo e le parti solistiche dei vari strumenti risultano sempre varie e convincenti. Inoltre si può notare un Andy Deris davvero a suo agio nel pezzo questo influisce non poco nel risultato finale. Inutile inoltre negare il tentativo di confronto con la suite Keeper Of The Seven Keys anche se c’è da dire onestamente che in questo caso il nuovo pezzo targato Helloween non ha nulla da invidiare al suo predecessore: mancheranno Hansen e Kiske ma questa The King For 1000 Years è davvero bella.
Gia dalla seconda canzone però iniziano le note dolenti: The Invisibile Man suona tanto di scontato quanto di riempitivo. Canzone davvero scialba e doppiona di molti pezzi degli ultimi lavori del disco che si salva forse solo nell’ assolo di Weikath.
Le cose vanno decisamente meglio con Born On A Judgement Day, molto in stile speed vecchi tempi con un occhio sempre rivolto al passato, con il solito assolo delle due chitarre all’unisono e con una buona parte intermedia di piccoli solo di batteria e di basso. Il ritornello è un po’ scontato ma la canzone non viene per nulla penalizzata.
Pleasure Drone è la classica canzone mediocre che le zucche avrebbero potuto senza dubbio risparmiarci. Canzone molto contorta su se stessa con una struttura impacciata che non riesce ad emergere sotto alcun punto di vista.
Dopo queste quattro di qualità altalenante arriviamo al singolo apripista del disco: su Mrs. God, purtoppo a differenza di The King For 1000 Years, pesa davvero come un macigno l’ombra di Dr.Stein alla quale il confronto qualitativo non regge neanche minimamente. Il pezzo è molto macchinoso e senza ritmo e questo lo rende maledettamente scontato fin dal primo ascolto. Nei suoi tre minuti scarsi Mrs. God non riesce mai a stupire e raggiunge poco più della sufficienza solamente per il riff piacevole che ha.
La successiva Silent Rain viaggia su binari qualitativi migliori anche se non eccelsi. Un brano buono ma non ottimo, anche perché suona molto di già sentito.
Passiamo ora al secondo disco.
Come il primo, anche il secondo disco si apre con una suite. Nell’intro di Occasion Avenue si sente una radio in fase di sintonizzazione e si possono udire brevi pezzi di canzoni tratte dai due storici Keeper Of The Seven Keys Pt. I & II come Eagle Fly Free, Halloween e Keeper Of The Seven Keys e questa non è una scelta casuale. Infatti questi tre pezzi sono quelli che più verranno presi come modelli in questo disco: come Keeper Of The Seven Keys è il modello di The King For 1000 Years, Eagle Fly Free lo è per pezzi come Born On Judgment Day o My Life For One More Day, ed infine Halloween è il modello di questa Occasion Avenue.
La canzone presa in considerazione risulta, come la suite del primo disco, molto convincente anche se dotata di un ritmo meno fresco e più cupo e persuasivo con delle bellissime accelerazione di batteria del nuovo entrato Dani Löble. Ottime anche le scelte musicali di Weikath nello “spalmare” le parti solistiche durante gli undici minuti per valorizzarle non renderle mai noiose.
La ballata successiva, ovvero Light The Universe, vede Andy Deris duettare con la voce incantevole di Candice Night dei Blackmore’s Night. La canzone risulta molto bella e piacevole nelle strofe ma pecca in un ritornello molto scontato sul quale si sarebbe potuto fare di meglio. Nonostante questo, il pezzo scorre bene, anche se poteva lasciare meglio il segno.
La successiva è una di quelle che non ci si sarebbe mai aspettati di sentire su un disco degli Helloween: Do You Know What You’re Fighting 4? risulta alquanto pesante e Deris su questi binari si muove molto bene.
Come Alive è un misto tra l’heavy della precedente ed il solito power con il solito ritornello che non è nei connotati di Deris e questo lo rende a tratti odioso. Nonostante ciò Come Alive è un pezzo ben scritto con le caratteristiche da singolo e sicuramente meglio riuscito di una contorta e banalissima Mrs. God. Sarebbe stato meglio usare come singolo questa canzone.
Il livello qualitativo si abbassa notevolmente con un'anonima The Shade In The Shadow, piatta e inutile.
Al contrario, con Get It Up gli Helloween trovano finalmente la loro vera identità cioè quella di una band che riesce ancora a sfornare ottimi pezzi happy metal. Il pezzo è armoniosamente in linea con le ultime produzioni della band anche se è dotato di un incisività e di una qualità maggiore rispetto agli standard che le zucche ci avevano abituato nell’ultimo periodo. Una piacevole sorpresa che non potrà che far sorridere tutti.
Anche la conclusiva My Life 4 1 More Day lascia il sorriso in bocca all’ascoltatore per il suo scorrere piacevolmente e per il buon refrain. Ottimo finale per un secondo disco senza dubbio superiore al primo.
Come giudicare questo Keeper Of The Seven Keys: the Legacy?
Inanzitutto al posto di due dischi con tre-quattro pezzi riempitivi se ne sarebbe potuto fare uno solo di una decina di pezzi ed il risultato finale sarebbe stato di valutazione superiore.
Musicalmente parlando, non esiste alcun filone tra questo Keeper e i suoi due predecessori ma questo non è un difetto anzi semmai il difetto è stato quello di legare questo album con i suoi due predecessori. Gli Helloween di oggi non possono essere ricollegati a quelli di fine anni ’80 per i vari motivi che tutti sanno ed è opportuno che il signor Weikath se ne faccia definitivamente una ragione e che incominci a far tesoro di quello che oggi si ritrova in mano, cioè una band di cinque ottimi musicisti penalizzati in partenza a portare il nome Helloween. Un disco convincente ma che perde di valore se accostato ai due Keeper; quindi, per capirlo meglio, bisognerebbe dimenticare il titolo, la copertina e qualsiasi paragone attribuitogli e cercare di vederlo come la nuova fatica discografica delle zucche.
Gli Helloween di Kiske e di Hansen non esistono più e non si possono ricreare senza il loro apporto, ma non per questo bisogna buttare via in partenza quello che Weikath e soci ci propongono: un disco piacevole di buon power/speed/happy metal.