:
- Tobin Bawinkel – lead vocals, guitar
- Kyle Bawinkel – bass, vocals
- Justin Bawinkel – drums, vocals
- Eric MacMahon – bagpipes, guitar
- Brandon Good – mandolin, guitar
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01. The Escare [Intro]
02. Black Thorn
03. Born For This
04. Courage
05. Smoke Blower
06. Hourglass
07. Shiny Eyes
08. We Grow Stronger
09. Son of Shame
10. Stampede
11. We Won Me Over
12. Way Of The Sun
13. Hot Head
Black Thorn
Che la scena punk internazionale sia in grave difficoltà, è un’affermazione ormai ritrita cui purtroppo non possiamo che piegarci. Che anche i più grandi interpreti del genere in questione vadano incontro a pesanti battute d’arresto, è un dato altamente inquietante, soprattutto se stiamo parlando di act prestigiosi come gli Alkaline Trio, ma incontrovertibile. Le eccezioni non mancano, naturalmente, ma si tratta per lo più di conferme a lungo sospirate da parte di formazioni che ne hanno già ampiamente scritto la storia, come nel caso degli Anti-Flag, o di ritorni tanto inattesi quanto esaltanti, ed in questo caso è evidente il riferimento ai maestri Rancid. Tuttavia, ciò che tarda a verificarsi, e forse in proposito occorre proprio rassegnarsi, è un ricambio generazionale esteso e soprattutto consistente, che sappia riferire quegli stessi istinti rabbiosi e volitivi che incendiarono la gioventù ribelle degli anni ’70 originando tutti i capostipiti ancora oggi più adulati: le ragioni fondamentali, per quanto il contesto sociale sia notevolmente mutato, com’è logico che fosse, ci sarebbero tutte, tanto più che al punk non si richiederebbero quelle stesse raffinatezze, spesso abbacinanti, che tanto successo riscuotono in altri settori musicali. Anima, sangue e sudore, con quella naturalezza ferina e spudorata, catartica e divertente allo stesso tempo, che ha fatto grande il movimento punk alle sue origini e che da sempre lo caratterizza.
Ogni tanto capita dunque di imbattersi in qualche sorprendente complesso che, nella propria ruvidità, riesce ugualmente ad accendere quella scintilla, insperata quanto luminosa, in grado di far innamorare qualunque punk-addicted le volga il proprio sguardo sfiduciato: è accaduto con gli Strongbow appena l’anno scorso, accade quest’anno con i Flatfoot 56. Dalla profonda Germania all’ammiccante Chicago, il passo è lungo ma nemmeno così tanto: se i primi, infatti, ci avevano sorpreso con un disco leggero eppure tenace, meditativo eppure cameratesco, i Flatfoot 56 riescono nel medesimo intento in maniera più tradizionale e forse canonica, ma ugualmente viva e brillante, promuovendo quel celtic punk rock che troppo a lungo si è solo identificato nei celeberrimi Dropkick Murphys ma che, proprio a partire da quest’ultimi, ha iniziato ad intravedere la propria decadenza. Ebbene, Black Thorn, quinto capitolo discografico della formazione britannica, è un disco nient’affatto pretenzioso o sconvolgente, tutt’altro che innovativo o particolarmente lungimirante, al contrario, è un lavoro bucolico, essenziale, del tutto puro nella propria semplicità convenzionale o più che altro rispettosa dei propri padri putativi. Com’è giusto che sia, qualunque formazione punk moderna non fa mistero delle proprie influenze, né tanto meno si intestardisce nel negarle a spada tratta, al contrario, è proprio quel profondo orgoglio, quel radicato senso di appartenenza che offre a certe produzioni quel tocco di magia, evocativa seppur derivativa, che ci consente di apprezzare, ancora e sempre, lavori altrimenti ovvi, ritriti, inutili.
Dalle più roboanti cavalcante in levare (la titletrack Black Thorn, We Grow Stronger), con quel suggestivo retrogusto tipicamente folk, ai più scanzonati intermezzi street (Born For This, l’arabesca Hourglass, soprattutto You Won Me Over), passando per attimi più teneri e malinconici (Courage) così come sfuriate travolgenti e del tutto inarrestabili (Smoke Blower, Stampede), Black Thorn dimostra di avere risorse considerevoli ed una varietà di situazioni musicali sempre efficaci e gradevoli, che trovano i loro acuti in Shiny Eyes, classica ballad folk dai commoventi echi gaelici, e Son Of Shame, in assoluto l’episodio più ossequioso alla lezione celtica impartita dai maestri Dropkick Murphys. Ciò detto, l’elemento che maggiormente caratterizza la prova discografica offerta dai Flatfoot 56 è rappresentato dalle linee melodiche di chitarra, sempre in piano, sempre cristalline e coinvolgenti, le quali, perfettamente valorizzate da un sound compatto e stentoreo, pur doverosamente incline a certa genuina ruvidezza, lasciano fluire gli ascolti con una facilità impressionante e sempre crescente, mantenendo intatta la propria fragranza esplosiva a distanza di poche ore come di diversi giorni.
Non mancano, com’è ovvio che sia, momenti più deludenti o, meglio, meno riusciti (Way Of The Sun, nonostante la consueta deliziosa introduzione, e la conclusiva Hot Head, dal finale tuttavia esaltante), ma Black Thorn può dirsi certamente album di spessore internazionale, un lavoro completo e convincente, in grado di farsi apprezzare da quanti aspettavano il momento giusto per ridare slancio e forza vitale alla propria inaridita vena punk così come da chi non esita ad ampliare i propri orizzonti più specificamente folk. I Flatfoot 56 non sono i (nuovi) Dropkick Murphys né mai lo saranno né, forse, hanno mai nemmeno maturato l’intenzione di diventarlo: i Flatfoot 56 sono semplicemente quell’agognata boccata d’ossigeno che l’intero movimento punk aspettava in questo imbarazzante 2010, che poi suonino la cornamusa (e pure bene) è solo e (sol)tanto di guadagnato.