Voto: 
9.5 / 10
Autore: 
Francesco Tognozzi
Etichetta: 
Virgin
Anno: 
1973
Line-Up: 

 - Werner Zappi Diermaier – Batteria
 - Hans Joachim Irmler – Organo
 - Jean-Hervé Péron – Basso
 - Rudolf Sosna – Chitarra, Tastiere
 - Gunter Wüsthoff – Sintetizzatore, Sassofono

Tracklist: 


   1. Krautrock
   2. The Sad Skinhead
   3. Jennifer
   4. Just a Second
   5. Picnic on a Frozen River (Deuxième Tableau)
   6. Giggy Smile
   7. Läuft...Heißt das es läuft oder es kommt bald...Läuft
   8. It's a Bit of a Pain

Faust

Faust IV

L'espressione kraut-rock è etichetta di un movimento assai eterogeneo e difficile da circoscrivere, se non in termini di background socio-culturale, coordinate Germania, primi anni '70. Molte sono le vie per addentrarsi in questo territorio oscuro, una ad esempio consiste nell'affrontare un'analisi retroattiva sul novanta per cento dell'attuale produzione rock ed elettronica; per chi non ha pazienza e predilige percorsi lineari, la chiave di lettura si trova nella primissima produzione dei Faust da Wümme, Bassa Sassonia, che riuscirono nell'arco di appena tre anni ad abbracciare gli antipodi del genere con una maestria che ancora oggi lascia basiti.

Il trittico d'esordio della band è da brividi: il primo LP, l'omonimo Faust datato 1971 (iconica la manona passata ai raggi-x che campeggia sulla copertina del vinile), è strutturato in tre lunghe suite all'insegna di un rumorismo agghiacciante, convulso, e arriva financo a citare due hit della stazza di (I Can't Get No) Satisfaction e All You Need Is Love maltrattandole, scartavetrandole; fa tabula rasa della stagione dell'amore e delle grandi illusioni, elevandosi così a vero e proprio manifesto, ideologico e sociale prima ancora che stilistico. So Far (1972), seconda prova sulla lunga distanza, si presenta come un lavoro di transizione, che sposa le tendenze più estreme che avevano avuto voce nell'omonimo esordio a un approccio melodico da provetti pop idols (se non vi fidate date un ascolto alla più fortunata del lotto, It's a Raining Day, Sunshine Girl). Un progetto sperimentale alla deriva, già in piena crisi d'identità? Tutt'altro, credetemi. La terza fatica in long-playing segna un'evoluzione definitiva in una proposta musicale che si pone accessibile, riportando i Faust tra gli umani, con una mossa di una sagacia e di un'intelligenza che non conoscono eguali. Faust IV è uno scrigno che si dischiude poco a poco ad ogni nuovo ascolto, per rivelare un tesoro fatto di colori e di sfumature. Una pietra miliare della corrente kraut tutta, un trentaseienne che sembra un neonato.

Tanto sfrontati da intitolare giustappunto Krautrock la monumentale suite d'apertura del disco (e già ci suona strano che dei mangiapatate abbiano familiarità con l'autoironia), i Faust danno subito un saggio della loro onnipotenza in campo di destrutturazione. Dodici minuti su uno shuttle che ha il passo di un treno a vapore, cadenzato e altamente disturbato; una marcetta apparentemente innocua che la band si diverte a inquinare con ogni sorta di aggeggio a sua disposizione. Tamburelli, fischi, fruscii, fracassi, distorsioni spaziali che ricordano tanto i capolavori dei migliori Hawkwind; ma il mantra che è scheletro e sostegno della composizione è debitore dei conterranei Amon Düül II e non abbandona l'ascoltatore fin nei minuti finali, quando gli strumenti iniziano ad apparire sempre più distanti, sconnessi fra loro. Pian piano la miscela si fa più eterea, il treno a vapore sembra aver preso un LSD; poi si dissolve nel niente, lasciando un tumulto sinistro nelle tube uditive dell'avventore.
Punto e a capo. Dodici minuti di cavalcata e neanche il tempo di pensarci su: la quiete dopo la tempesta viene assalita da un grido di pagliaccio straziato, seguito da una sonora soffiata di naso (!). Il reggae a suon di maracas e xilofono (e i Violent Femmes di Gone Daddy Gone ringraziano) che ne scaturisce è assolutamente straniante, lascia di sasso. Improvvisamente cominci a scuotere braccia, gambe e testa al ritmo irresistibile dei Caraibi, realizzando che la storia qui è cambiata di diritto in rovescio. Dopo averti lanciato in orbita i Faust ti riportano al suolo a ballare sulla testa dei porci nazisti, spogliandosi dei loro abiti austeri per vestire bermuda e ciabatte. "Going places, smashing faces / What else could we do?" The Sad Skinhead è un amaro divertissement farcito di suonini e diavolerie di ogni sorta, impressionante per la sua preveggenza, una perla di autentica pop music che non sfigurerebbe oggigiorno come hit estiva, da veder ballare ai ragazzini.
Per la seconda volta finisce il pezzo e ti trovi a grattarti la testa, non ci stai capendo più niente e tutto questo è solo il principio. Battiti sordi e una melodia lontana, che ti portano in un altro mondo ancora, dai contorni indecifrabili. Jennifer ha un incipit da sognante litania, intrisa di un sapore mitteleuropeo che la rende tanto familiare. Ma se sappiamo qualcosa sui Faust, giunti a questo punto, è che dei filosofi del caos non possono permettere che tanta grazia regni indisturbata: al minuto 4, puntualmente, rimediano tentando l'accensione del motorino, con dei colpi ben assestati sulla pedalina. Quasi di punto in bianco siamo alle prese con vortici cosmici che muoiono su se stessi, gorghi elettrici cha faranno la fortuna di Roy Montgomery e Bardo Pond, ben molti anni dopo. Fino a che uno schianto non dà il la ad una tarantella per pianoforte degna dei Residents, che va a concludere la terza traccia di un disco che basterebbe già così confezionato per sorprenderti.

Just a Second (Starts Like That) parte in quarta con una chitarra presa in prestito ai Black Sabbath, che imperversa su un motorik stavolta di pura matrice kraut. Ma ancora una volta i camaleonti ingoiano tutto ciò che trovano per strada. Grilli, cicale, persino gli uccellini. C'è proprio tutto nel menù, siamo incappati in una notte d'estate dal sapore sintetico. E poi elicotteri, spari, mitra, ti chiedi se sia il Vietnam. I Faust fanno della grande musica perché riescono a evocare immagini che sembrano riesumate dall'esperienza più intima, ma appartengono in realtà ad un mondo androide, che a tratti sembra confondersi col nostro ma torna sempre a ripiegarsi inevitabilmente su se stesso. Disordine e claustrofobia.
Una danza dell'era industriale costruita su un basso monotono e due voci ubriache che si incrociano ("Ease me baby feed me baby, naked lunch is fun / I'm so lazy, I'm so crazy in the rising sun") apre Giggy Smile. I nostri si lanciano stavolta in un groove che smuove dalla sedia, si sofferma dopo appena un minuto su atmosfere ambient, per poi infine riprendere le fila del discorso più danzereccio che mai, costruito sempre sul basso pulito e monocromo di Jean-Hervè Peron. La traccia muta quindi in un assolo rimbalzato tra la chitarra e un sax malato; infine cambia passo in un batter di ciglia e apre a una danse elettronica in cui corde e sintetizzatore si rincorrono, inciampando di tanto in tanto, coadiuvati da un magistrale 'Zappi' Diermaier che picchia su una batteria di pentole in preda alla schizofrenia.
Il motivetto da suoneria si trascina per qualche minuto e dopo varie sbandate si schianta contro un pino. Fine della corsa, e pare di svegliarsi da una seduta d'ipnosi. Ci sono due voci che si parlano al microfono adesso, siamo chiaramente in uno studio di registrazione. E chi lo capisce il Tedesco? "Läuft...Heißt das es läuft oder es kommt bald...Läuft". Poi uno dei due attacca una bucolica di chitarra acustica, prima che un synth dal sapore medievale cominci a prendere forma e trasporti il sempre più fortunato musicofilo in un paradiso stavolta terrestre, ma molto, molto antico. Un sinistro battere di mani, una filastrocca sussurrata in lingua francese: è un momento di surrealismo totale ed è anche l'apice del sogno sempre più articolato che i Faust ci propinano. Ma si sa, riesci appena a fare l'abito a una melodia, che sono loro a farti l'abito, mischiando tutte le carte in tavola. Stavolta è una girandola di legno a inserirsi nel contesto e ormai il giochino si è capito: si cambia musica. Neanche a dirlo, un-duè-trè la pastorale disturbata muore nel nulla e un vento etereo, che dipinge orizzonti sconfinati, affiora dal silenzio. E' il lirismo dell'era delle macchine, ed è bellissimo.
Läuft si conclude dopo 8 minuti, lasciando nell'aria un alone di inquietante dolcezza, per poi cedere il testimone alla track conclusiva del disco, It's a Bit of a Pain. Il genio dei Faust, che si manifesta in una varietà estrema di forme, evince qui dalla scelta di chiudere un percorso che ha sconquassato il malcapitato uditore con quello che è, a conti fatti, il pezzo più tradizionale e/o convenzionale dell'album, l'unico degno d'esser chiamato "canzone" senza vergogna. Si tratta di una ballata di campagna, lenta e sudata, per chitarra acustica e piano, che la band stavolta si limita a straziare un paio di volte, con un disturbo di frequenza prima e con una voce femminile in tono radiofonico, dopo. Finché una chitarra molto, ma molto distorta, non giunge a mettere la parola fine su Faust IV, prendendo per mano la melodia fino alla conclusione del siparietto campestre.

Si apre qui una doppia possibilità: per l'ascoltatore in stato di trance far ripartire il disco da zero rappresenta la scelta più redditizia, perché innumerevoli sono le forme che questo capolavoro d'arte contemporanea, che non annoia mai, può assumere ad ogni nuovo approccio; per l'individuo cosciente e affamato di Faust c'è il secondo CD della splendida edizione uscita per Virgin nel 2006. Oltre a proporre takes alternative dei pezzi cult dell'album, questa chicca contiene la triade The Lurcher - Krautrock - Do So registrata nel corso delle BBC Sessions del 1973 (e uscita sul relativo disco), e lo splendido interludio di Piano Place.

Faust IV è un lavoro nel suo complesso molto intricato, un nodo che sembra non sciogliersi mai completamente. E' capace di stupire per la sua lungimiranza, ma lo fa in modo meno cerebrale e spocchioso di tanti sperimentalismi a esso contemporanei, di marca teutonica e non; si mimetizza terribilmente nel gusto comune e non perde mai al contempo l'occasione per mostrarsene lontano anni luce. Rappresenta un blocco di partenza per intere generazioni di musicisti a venire e un traguardo assoluto per una kraut-band che oggi meriterebbe (almeno) il rispetto attribuito ai cugini Can e Neu!. E' un cane che si morde la coda, una confessione a metà. Un viaggio denso di profumi, e di poesia.


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