- Vratyas Vakyas - Voce pulita, Cori, Chitarre, Tastiere
- Hagalaz - Chitarre acustiche ed elettriche
- Tyrann - Voce screaming, voce parlata
- Boltthorn - Batteria, Percussioni
1. Heathen Foray
2. ...Of Forests Unknown...
3. Hàvamàl
4. Roman Land
5. Heralder
6. Laeknishendr
7. Walkiesjar
8. Skirnir
9. Gjallar (Bonus Track - Disponibile solo nelle versioni DIGIPACK e LP)
Heralding - The Fireblade
Vratyas Vakyas è tornato.
Torna due anni dopo quell’ “Ok Nefna Tysvar Ty” (2003) che aveva sì convinto, ma rimaneva un disco anomalo, acustico e folk, privo di quelle sfuriate black che tanto avevamo amato sul primo disco della band. Ed anche il secondo disco “...Magni Blandinn Ok Megintiri…” non era riuscito, nell’ormai lontano 1998, a bissare la qualità del predecessore, vale a dire il debut-abum “...En Their Medh Riki Fara...” (1996), a tutt’oggi ancora il miglior lavoro del musicista islandese.
Tirando le somme, ci si attendeva da Vakyas un lavoro all’altezza delle aspettative e del suo glorioso passato.
E la mente del progetto Falkenbach non ha tradito i suoi fans, andando a rispolverare i brani che sarebbero dovuti comparire, nel 1995, sul primo disco della band, The Fireblade. Quel disco non vide mai la luce per problemi tecnici e di registrazione, e il debut album della band divenne quindi il già citato, fenomenale, “...En Their Medh Riki Fara...”.
Il materiale risale quindi al primissimo periodo della band, e ciò non è altro che garanzia di qualità. Di gran qualità, aggiungerei.
Per la produzione e il mixing, invece, Vratyas non è assolutamente rimasto ancorato al passato e ha scelto una produzione cristallina e esplosiva, creando un sound profondo, potente e compatto; tale scelta rende questo disco adatto anche a orecchie poco allenate alla ruvidità che caratterizzava, ad esempio, le prime produzioni della band.
A segnare la differenza con “Ok Nefna Tysvar Ty”, oltre alla ricomparsa delle sfuriate black, della doppia cassa e delle poderose chitarre elettriche, vi è anche il (gradito) ritorno del cantato in screaming, questa volta affidato a Tyrann dei Vindsval, gruppo dal quale provengono anche gli altri due guest, vale a dire Hagalaz (chitarre e tastiere) e Boltthorn (batteria).
Screaming di buon livello dunque, più preciso e meno selvaggio di quello che Vratyas ci proponeva agli esordi della sua carriera; mentre le clean vocals rimangono di competenza del leader, che si cimenta in un’ottima prestazione, figlia dell’abilità accumulata con “Ok Nefna Tysvar Ty”.
Graficamente, ciò che più colpisce è l’eleganza con la quale ci viene presentato il cd (peraltro tipica di Falkenbach dal secondo disco in poi): un serioso digipack in bianco e oro nasconde una copertina di una bellezza clamorosa, mentre il booklet si adegua all’impostazione raffinata del packaging grazie ad un layout tanto semplice quanto di classe – sfondo nero, testi in oro con caratteri gotici, piccole immagini a sfondo dei titoli.
Il familiare rumore delle onde che si infrange sulla spiaggia è il preludio a Heathen Foray, nuova versione di quella Heathenish Foray che compariva come quarta traccia su “...Magni Blandinn Ok Megintiri…”. Se l’originale soffriva di una mediocrità nel cantato e di una ripetitività un po’ troppo esasperata, la versione qui recensita rimedia agli errori del passato grazie alla batteria più corposa e alla voce più intraprendente, sebbene le melodie seguano fedelmente l’originale. Opener folkeggiante di grande spessore, Heathen Foray si segnala come una delle migliori song di questo lavoro, ed è inoltre tra quelle a cui il “restyling” ha più giovato.
Con …Of Forests Unknown… si ritorna al classico black graffiante, veloce e melodico del debut album, nonché al tipico vizietto dei titoli con i puntini di sospensione. Batteria lanciata, riffs ottimi e incalzanti in cui l’origine black del progetto Falkenbach torna a farsi sentire prepotentemente, scream rabbioso: non manca nulla, se non un finale che non sia “buttato lì” in fade-out come invece risulta essere. Decisamente indovinato in ogni caso l’inserimento del pezzo in seconda posizione, fra due brani lenti ed epici.
In Hàvamàl Vratyas mette tutta l’esperienza acquisita con “Ok Nefna Tysvar Ty”: la terza traccia è una ballata di notevole bellezza, in cui riecheggiano le splendide melodie di brani come Donar’s Oak o Aduatuza. I testi sono presi dal Ljóðatal, la parte finale del poema che da il nome alla canzone – e non è la prima volta che Vratys saccheggia l’Hàvamàl, basti pensare alla frase “...En Their Medh Riki Fara...” , la quale è anch’essa una citazione.
Sono le clean vocals qui a fare la parte del leone, con una grande interpretazione epica da parte di Vratyas; fondamentale anche l’apporto di chitarra acustica e tastiere.
Roman Land è il quarto episodio, aperto da un buonissimo riff di black metal epico, accanto a cui fanno gran figura lo scream di Tyrann e la doppia cassa di Boltthorn. Protagoniste qui sono comunque le chitarre, che ci riportano alla grande dinamicità dei momenti migliori di “...En Their Medh Riki Fara...”. Parecchi cambi di riff e sovraincisioni si fanno infatti apprezzare, soprattutto durante la seconda metà della canzone.
Ci troviamo ora di fronte a un vero gioiello epico: Heralder, originariamente contenuta solo nella LP-version di “...En Their Medh Riki Fara...”, viene qui riproposta, mostrandosi in tutta la sua bellezza. Particolarmente nostalgico il suono delle tastiere, che riporta alla mente alcune idee del primigenio black anni ’90, facendo da intelaiatura a un riff portante cadenzato ed epico come nella migliore tradizione Falkenbach. Molto buono lo stacco parlato a metà canzone, dopo il quale si ricomincia con un trascinante giro di tastiera classicamente folk alla HeathenPride. L’armata pagana è radunata e si mette in marcia verso i confini., fino all’emozionante momento dell’attacco, eccellentemente descritto dallo scream di Tyrann.
L’inconfondibile riff iniziale di Laeknishendr irrompe subito dopo, mai così limpido, mai così violento. Certo, la versione del demo omonimo oppure quella del debut album sono tutta un’altra storia in fatto di atmosfera, ma questa, nuova, ha dalla sua una grande potenza e un maggiore tasso tecnico. Tutto il pezzo converge verso un momento di grande pathos attorno al secondo minuto, in cui le chitarre elettriche si spengono lasciando posto alla sola chitarra acustica; quella melodia inconfondibile, che ha marchiato a fuoco i cuori di chi ama “...En Their Medh Riki Fara...” , non perde l’alone magico ed esaltante anche a distanza d’anni.
Walkjesiar, grazie anche ad un testo descrittivo all’ennesima potenza, riesce a ricreare una mattina fra i ghiacci del nord, in cui la dorata luce del sole si posa sulle cime degli alberi. Nuovamente Tyrann dietro al microfono, ad esclusione della parte finale, in cui dei discreti cori (in parte un po’ pacchiani a dir la verità) accompagnano la melodia delle chitarre. Interessante l’intermezzo di percussioni che apre e chiude la song, facendo strada alla conclusiva Skirnir.
Nuovamente Vakyas prende spunto dalla ricca tradizione dell’Edda poetica: il brano infatti si propone di mettere in musica lo Skírnismál, ovvero il poema nel quale il dio Freyr (nominato nella song come Veraldur) manda il proprio messaggero Skirnir a “convincere” la gigantessa Gerd a sposarlo. Conoscendo il poema si possono apprezzare le varie situazioni, che apparirebbero un po’ incoerenti se si leggesse il testo senza conoscerne l’origine.
Tornando all’analisi musicale, Skirnir è, a differenza della precedente, più calma e cadenzata. D’impatto, ricorda parecchio qualcosa di “...Magni Blandinn Ok Megintiri...”, seppur priva dei difetti di quella pubblicazione.
Buona la scelta di alternare la voce narrante alla clean, allo scream, ai cori, alla voce femminile (che impersona Skadi, madre di Freyr): un brano quindi che punta sulla varietà, e che svolge alla perfezione il compito per il quale è stato composto: ovvero invogliare l’ascoltatore ad alzarsi dalla poltrona e premere nuovamente il tasto “Play”.
Per chi invece ha messo le mani sulla versione digipack, rimane ancora da ascoltare la buona Gjallar, già presente sul demo del ’96 “...Skinn Af Sveri Sol Valtiva...”.
Aperta dal suono del corno di Gjallar, il brano è un pezzo che profuma di black epico già dal riff iniziale, ricco di melodia e arricchito da delle ottime tastiere d’atmosfera. Attorno ai tre minuti e mezzo, uno stacco con un rude ed abbozzato assolo ci riporta alla mente lavori quali The Wanderer degli Emperor, fino a che, dopo sette minuti di pura nostalgia, Gjallar, e con essa anche Heralding The Fireblade, si spegne.
Poco da aggiungere: il nuovo lavoro di Falkenbach va acquistato ad occhi chiusi se si è amanti del folk, del viking, del pagan metal; ed Heralding The Fireblade rimane un ottimo acquisto anche se si possiedono i vecchi lavori della band.
Ai novizi che invece vorrebbero entrare nel mondo di Vratyas Vakyas lo consiglio ancora più caldamente in quanto l’ottima produzione e la grande qualità dei brani lo rende un sicuro punto d’approdo; dopodiché si potrà passare più facilmente all’ascolto del resto della discografia e in particolare a quella gemma che risponde al nome di “...En Their Medh Riki Fara...”.
E, prendendo in prestito anch’io la parte finale dell’ Hàvamàl che ha ispirato i Falkenbach, concludo:
“… Now are sung the High-one's songs,
in the High-one's hall,
to the sons of men all-useful,
but useless to the Jötun's sons.
Hail to him who has sung them!
Hail to him who knows them! May he profit who has learnt them! Hail to those who have listened to them!”
Conoscete, capite ed ascoltate le canzoni di Vratyas, scaldo dei nostri tempi.
Consigliato.