- Vratyas Vakyas - voce, chitarre, basso, batteria, tastiera
1.Galdralag
2.Heathenpride
3.Laeknishendr
4.Ultima Thule
5.Asum ok Alfum Naer...
6.Winternight
7.…Into the Ardent Awaited Land…
...En Their Medh Riki Fara...
Tra dicembre ’95 e marzo 1996, i Blue House Studio videro la creazione di uno dei migliori album che il nascente Viking Metal potesse annoverare fra le sue fila: “...En Their Medh Riki Fara...” di Falkenbach, che a distanza di 10 anni rimane ancora uno dei picchi di questo genere di nicchia.
Questo debut è inoltre ancora oggi l' “opera massima” di Vratys Vakyas, mente (e all’epoca anche anima e corpo) del progetto: i lavori successivi infatti non raggiungono la sincera purezza e magnificenza di questo lavoro, pur essendo releases di buonissimo (Ok Nefna Tysvar Ty, Heralding the Fireblade) o mediocre (Magni Blandinn ok Megintiri) livello.
Mente, anima e corpo, dicevamo: quando registrò questo cd, infatti, Vratyas si occupava di tutti gli strumenti e delle voci, oltre che del songwriting e degli arrangiamenti. Il livello tecnico del disco si assesta quindi su livelli accettabili, chiaramente non aspettatevi tecnicismi d’alcun tipo, d’altronde inutili in un genere come questo.
Tecnicismi che se anche ci fossero sarebbero nascosti da una produzione davvero grezza, di cui è un perfetto araldo il suono “a zanzara” delle chitarre [tanto caro alle balckmetal band del periodo], immediatamente riconoscibile all’attacco del primo riff.
Produzione pessima non solo nel suono, ma anche in tutto quello che ci gira intorno: il booklet in mio possesso –che pure è uno di quelli della seconda edizione- riporta infatti immagini di dettaglio grossolano; stesso discorso per quanto riguarda la copertina; fa eccezione il logo dorato –opera di Christophe Szpajdel- presente nelle pagine centrali in tutto il suo abbagliante splendore.
A differenza delle releases successive, che tenderanno a un avvicinamento verso l’epico a scapito del grezzo, En Their Medh Riki Fara gode di una dinamicità tipicamente black, che lo rendono capace di offrire un riffing vario, un drumming cadenzato ma mai stancante, un cantato arcigno in screaming che si alterna a una melodiosa voce pulita. Per concludere questa descrizione per sommi capi del suono Falkenbach-iano è impossibile non citare l’importante presenza di atmosferiche tastiere in sottofondo (la lezione degli Emperor è stata ben appresa, sviluppata e perfezionata), che avanzano spesso in primo piano partecipando alle composizioni con apprezzate partiture folk.
I sette pezzi scelti per questa release furono la crema di quelli composti in quel periodo, periodo in cui la fertile ispirazione di Vratyas fece produrre ai Falkenbach una serie di brani che sarebbero bastati anche per gli anni a venire: basti pensare che il nuovissimo gioiellino “Heralding - The Fireblade” contiene ri-registrazioni di brani di quest’epoca.
Il primo di questi è tuttavia non particolarmente ispirato: Galdralag, introdotta dai “soliti” effetti rumoristici, è un brano black epico strumentale, in cui sono però presenti dei vocalizzi screaming che non recitano alcun testo, ma che danno ritmo alla musica. Protagoniste assolute sono le chitarre, che costruiscono una solida tela di riffs: pur interessanti e trascinanti, possono annoiare dopo un po’ l’ascoltatore poco interessato, risultando quindi in un’opener poco azzeccata.
L’interesse invece aumenta obbligatoriamente con la seconda, drammatica e narrativa Heathenpride, uno dei brani più famosi di Falkenbach: la prima parte della canzone è una ritmata ballata melodica e folk, gestita con sapienza dalle clean vocals di Vratyas e dalle tastiere ariose. Liricamente, si racconta dell’arrivo nelle terre del nord dei cavalieri cristiani e dei loro delitti, cui segue un raduno della popolazione pagana attorno al proprio sovrano. Quando la voce di Vakyas muta in uno screaming colmo d’ira e la voce del popolo urla “Revenge!”, vendetta, la canzone cambia volto, le tastiere si fanno più pericolosamente oscure e il riffing cambia di tono; infine, il contrattacco della popolazione nordica spazza via ogni resistenza e si ritorna alla calma con il prezioso contributo delle melodie folkeggianti di un flauto.
A seguire, una coppia di brani che non esito a giudicare come due fra i migliori della produzione dell’islandese; la prima, Laeknishendr, viaggia su livelli d’eccellenza: fondamentalmente è una strumentale, ma durante gli stacchi Vratyas recita un testo –peraltro non riportato nel booklet- tratto dal Sigrdrífumál.
Il potente riffing iniziale, degno dei migliori Satyricon, è stoppato da un’apertura epica e maestosa tipica di Falkenbach: assolutamente coinvolti dagli scream indiavolati di Vakyas, gli ascoltatori non possono che commuoversi di fronte allo stacco di chitarra classica (molto Bergtatt-iano) prima dei due minuti, semplice quanto indovinato: esaltante come il giro di chitarra venga ripetuto anche quando a sostenerlo vi sono le chitarre elettriche, le potenti percussioni e lo screaming ritmato di Vratyas. Classico brano che non ci si stanca mai d’ascoltare, Laeknishendr si evolve fra black epico e melodico, momenti folk, cantato corale clean sovrapposto allo scream e stacchi acustici: la produzione grezza aumenta il pathos dell’esecuzione, e questa versione della song distrugge sia la demo-version che quella recentissima presente su Heralding the Fireblade.
Ultima Thule non fa che ribadire la carica black e lo splendore folk del disco: mid-tempo efficace quanto vario, la quarta traccia fa leva sullo scream sentito delle strofe e sui cori puliti: il testo si consuma in un minuto e venti secondi, il resto è nuovamente strumentale, possente negli assalti black, delicato nell’acustico, epico nei cori.
Il flauto apre Asum ok Alfum Naer... (“Vicino agli Dei e agli Elfi”, citazione, ennesima, dall’Edda), strumentale “vera”, senza la contaminazione del cantato, estremamente folk: quasi otto minuti di grande ispirazione, che hanno il proprio culmine nel momento centrale in cui la song sembra spegnersi, rimanendo attaccata solo al sibilo del vento, ma, con il tuonare della tempesta ecco nuovamente la nenia iniziale di flauto riprendere tutto il proprio vigore ed il pezzo ricominciare a snodarsi fino al raggiungimento della fine del brano.
Le ultime due sono atipiche: Winternight è un gustoso brano di black melodico molto oscuro e interamente in screaming, privo dell’apporto delle tastiere, mentre, al contrario, ...Into the Ardent Awaited Land... è più aperta e solare, e spazia su territori molto melodici, cantata con la voce pulita da un ispirato Vratyas.
In questa traccia molto evocativa, tornano a farsi sentire le importanti tastiere, mentre voci e chitarre costruiscono una melodia molto orecchiabile che vi troverete a fischiettare prima ancora di rendervene conto; la chiusura è lasciata a un lineare ma apprezzabile assolo chitarristico.
“…En Their Medh Riki Fara…” (“E, Gloriosi, Loro Passeranno”) è l’apice della discografia di Falkenbach: ricco e vario, pieno di interessanti momenti folk che ora imperano sovrani nella maggior parte dei lavori Viking, eppure impregnato fino al midollo di quell’alone black che farà strage fra i nostalgici.
Per iniziare a familiarizzare con il Falkenbach-sound è consigliabile iniziare dall’ultimo, ben prodotto, Heralding The Fireblade, o dal terzo, acustico, Ok Nefna Tysvar Ty, ma se vi piace lo stile di Vratyas sappiate che dovrete passare obbligatoriamente dall’ascolto di questo suo, primo, grandissimo lavoro.
''Thors hammer - in chains around my neck,
an ancient wisdom deep inside,
my blood flows wild now through my veins
while my wandering through this darkest
winternight...''
Falkenbach - Winternight