Mark Smith - chitarra
Munaf Rayani - chitarra
Christopher Hrasky - batteria
Michael James - basso
1. Last Known Surroundings
2. Human Qualities
3. Trembling Hands
4. Be Comfortable, Creature
5. Postcard from 1952
6. Let Me Back In
Take Care, Take Care, Take Care
Se c'è un'etichetta davvero inflazionata nel mondo musicale, sicuramente non è sbagliato dire che essa è "post rock". Ma non solo per il suo uso variopinto ed esteso, ma anche per la crescita esponenziale di esempi standardizzati di questo termine.
"Post" dovrebbe indicare dopo, ma dopo cosa? Dopo il rock? Cioè come se prima ci fosse il rock, poi si ha voltato pagina con qualcosa venuto successivamente? Ma il rock non è certo finito e ha ancora molti altri capitoli da scrivere nel libro della sua storia (così come non lo era quando al principio degli anni '90, di fronte allo stesso interrogativo, nessuno ancora si immaginava il grunge, il nu metal, lo shoegaze o proprio il post rock). Invece originariamente con l'etichetta "post" si voleva indicare qualcosa che andava oltre i precedenti canoni, oltre il concetto tradizionale di rock, rifiutandone molte forme ed istanze pur utilizzando sempre gli stessi strumenti, le stesse note, gli stessi accordi.
Fu così che ci ritrovammo gruppi come i Talk Talk, i Bark Psychosis o gli Slint a offrirci diversi gioiellini, con pezzi dilatati e scarnificati, "intensi" giochi di silenzi, scomponimenti e ricomponimenti di generi vari (pop, rock, jazz, ambient ecc.) per creare qualcosa di nuovo. Il post rock era in verità un insieme di cose in alcuni casi anche un po' differenti, stilisticamente, ma accomunate dallo stesso spirito e da un'affine cultura musicale; qualcuno, ironicamente, lo definiva un "non-genere".
Poi arrivarono gruppi come per esempio i Mogwai o gli Explosions in the Sky, a istituzionalizzare, anzi, standardizzare una formula nella quale convergevano le precedenti esperienze ma che seguivano canoni più immediatamente riconoscibili e determinabili, al punto che il "non-genere" ormai era accettato come genere a tutti gli effetti, con i suoi paletti entro il quale lo si poteva distinguere, pur non rinunciando a tutte le influenze/divagazioni/tendenze/sperimentazioni del caso a seconda del gruppo. I gioiellini venivano ancora composti, ma ormai il dado era tratto, e quella che era una sorta di "elite" di gruppi sopra la media e sopra gli schemi divenne un calderone che ribolliva dei più disparati gruppi, ormai da qualche anno spuntati come funghi.
E che spesso dicevano tutti, fondamentalmente, la stessa identica cosa.
Ora, a oltre dieci anni dall'esordio, dei vati come gli EitS, forti ispiratori per questa marea di formazioni, cosa possono dirci con il loro ultimo album Take Care, Take Care, Take Care?
Nulla che non sia già stato detto? Può darsi.
Nulla che possa essere detto bene? No, aspettate.
La formula stilistica degli EitS ha in qualche modo raggiunto il cosiddetto stato dell'arte, trovando un suo equilibrio formalmente perfetto da condurre con coerenza e dal quale ricavare il massimo dell'esprimibile.
Non ci sono rivoluzioni o scossoni, anzi, gli stessi 6 brani che compongono l'album tendono a mantenere un filo conduttore fra gli stessi che quasi rende l'album un unicuum compatto, da assaporare tutto d'un fiato con i suoi apici emotivi e i momenti di atmosfericità e intimismo (ma che nei momenti più deboli ha il rovescio della medaglia nel far sembrare i pezzi troppo simili fra loro).
Se si eccettua la breve parentesi macchiata di indie rock di Trembling Hands, si potrebbe parlare come al solito di minestra riscaldata, ma lo chef è esperto nel dosare gli ingredienti e riesce a trovare gli equilibri giusti per creare atmosfere emozionali di spessore. Ci sono quindi diversi momenti che catturano l'interesse e risultano avvolgenti per emozionalità, ma va giustamente sottolineato anche che alberga di fondo un certo schematismo che traspare fra i brani, rendendoli più piatti e, come già detto, a volte un po' simili.
Fin dall'iniziale Last Known Surroundings i brani giocano sull'andirivieni di gorgheggi melodici di chitarre, alternati a momenti più placidi e acustici, e accompagnati da effetti riverberati a rendere il tutto più "emozionante", tradendo in ciò un certo manierismo.
La batteria è capace di momenti intensi e flessibili ma anche minata da un po' di incertezza nel piglio ritmico da seguire, con sequenze di tempi differenti alternate ma più come esercizio di stile che per diversificare l'emozionalità dei brani (pur mantenendo sempre una perizia esecutiva di classe).
Human Qualities ancora ripropone gli intrecci di chitarre clean, con spruzzi elettronici e ambientali di contorno, qualche momento in cui tutto si fa più minimalista per dare spazio ad attimi silenziosi, finale con climax fragoroso. Fondamentalmente tutto molto prevedibile, ma progettato con cura certosina, con note al posto giusto, distensioni dall'ottimo tempismo prima del picco emotivo ed atmosfericità sempre pronta a passare da timbri rarefatti a sussulti passionali.
Invece, Be Comfortable, Creature, parte in sordina e si sviluppa ripetitivamente facendo preannunciare un'esplosione che poi non arriva mai, risultando solo in una monotonia senza capo nè coda.
Non commette lo stesso errore Postcard from 1952, una lenta e lunga crescita dal very soft al very loud. Una traccia malinconica, tenue, dolce, ma anche forse la più banale del lotto.
Infine abbiamo Let Me Back in, dal motivo melodico incalzante ma senza rinunciare ad un sentimentalismo quasi commovente, che ha il suo culmine nella stratificazione di strumenti centrale, salvo poi lasciar spazio ad una lunga coda rarefatta e notturna.
Consigliamo l'album soprattutto ai fan degli Explosions in the Sky e del post rock, che troveranno un'ulteriore riproposizione del genere di pregevole fattura, arrangiata con naturalezza e ben eseguita, ma anche con diversi difetti, che impediscono a Take Care, Take Care, Take Care di convincere appieno e che sicuramente faranno più che storcere il naso agli altri.