:
- Keith Buckley - voce
- Andy Williams - chitarra
- Jordan Buckley - chitarra
- Josh Newton - basso
- Mike Novak - batteria (ora Ryan Leger)
:
1. Roman Holiday
2. The Marvelous Slut (feat. Greg Puciato of Dillinger Escape Plan)
3. Who Invited The Russian Soldier?
4. Wanderlust
5. For The Record
6. White Smoke
7. Turtles All The Way Down
8. Organ Grinder
9. Host Disorder
10. After One Quarter Of A Revolution
11. The Sweet Life (feat. Matt Caughthran of The Bronx)
12. Buffalo 666 [Deluxe Edition Bonus Track]
13. Goddam Kids These Days [Deluxe Edition Bonus Track]
New Junk Aesthetic
L’inatteso passaggio dalla Ferret Music alla Epitaph Records, rivelato lo scorso Natale durante il loro quarto Christmas Show annuale a Buffalo, sancisce, per gli Every Time I Die, l’ennesimo reboot discografico: se in passato, infatti, avevano ampiamente dimostrato di sapersi destreggiare con disinvoltura e sapiente originalità in territori confinanti a nord con il metalcore meno easy listening e a sud con un certo southern metal revisited, con questo New Junk Aesthetic l’irriverente formazione dello stato di New York decide di esplorare più approfonditamente quanto ci fosse alle estremità laterali, recuperando gran parte delle proprie origini punk hardcore sulla scia dell’esaltante Hot Damn! targato 2003. Non era certamente impresa facile confermarsi ai ragguardevoli livelli del precedente The Big Dirty, in assoluto una delle uscite più personali e meritevoli del passato 2007, ma questo New Junk Aesthetic ribadisce, se ancora ce ne fosse davvero bisogno, che gli Every Time I Die, giunti ormai al loro quinto full lenght, sono una delle poche formazioni che sopravvivranno senza alcun problema alla definitiva scomparsa del movimento metalcore: merito di uno stile inclassificabile, di una personalità straripante, di un sound massiccio ed esplosivo allo stesso tempo (merito dell’incisiva produzione di Steve Evetts, da sempre fidato collaboratore del quintetto americano) che in quest’ultimo platter raggiunge probabilmente la sua formulazione più efficace e compiuta.
L’unico aspetto sostanzialmente negativo resta una certa difficoltà di assimilazione nei confronti di uno stile di grande impatto sonoro ma sostanzialmente monocorde che, per quanto avvinto da radici così profondamente confederate da costituire di per sé elemento distintivo e sorprendentemente stuzzicante (specialmente al confronto con la miriade di insignificanti realtà frettolosamente classificate come metalcore), alla lunga rischia di diventare vagamente asfissiante. Viceversa, uno degli aspetti più controversi della proposta musicale firmata Every Time I Die, nonché ciò che probabilmente ne ha impedito il trionfo commerciale, resta l’estrema, di quando in quando persino eccessiva, irruenza delle soluzioni adottate, alle volte eccessivamente impetuose, alle volte esageratamente monolitiche: New Junk Aesthetic, molto più dei suoi predecessori, sembra curare con maggiore attenzione questo dettaglio, riuscendo spesso nell’intento di incanalare la veemenza giovanile dei 5 musicisti della East Coast in partiture più organiche ed articolate, pur mantenendone inalterata quella genuinità un po’ grezza e un po’ smodata che da sempre li caratterizza e senza la quale certamente non sarebbero loro stessi.
Tuttavia, è bene sottolineare come, soffermandosi sui singoli episodi di questo mostruoso New Junk Aestethic, non manchino certo sfumature cromatiche sufficientemente variegate da sottendere ad una discreta mole di idee compositive, sintomo evidente di una creatività vulcanica che da sempre contraddistingue gli Every Time I Die: dalla cupa introduzione di Roman Holiday (opener dannatamente efficace), che, con incedere quasi marziale, si trascina per tutti i suoi 3 minuti netti di durata aggrappata ad un paio di accordi tanto distorti quanto roboanti, si passa in un batter d’occhio a quella scheggia impazzita di puro hardcore punk che è The Marvelous Slut, per poi superare di slancio la trascinante Who Invented The Russian Soldier, il cui hardcore arcigno e potente sfocia in chorus con assoluto obbligo di headbanging, e imbattersi nel primo momento realmente sorprendente del disco, quella Wanderlust che, richiamando istintivamente quanto già mostrato nel precedente The Big Dirty, sintetizza ritmiche southern rock e violente sezioni ‘core in una struttura canora dalla complessità al limite del progressive (c.v.d.).
Se questa prima parte può dirsi certamente positiva, considerando l’insolita e sorprendere Wanderlust come il primo reale spartiacque (per via della sua durata, consistente soprattutto in virtù del confronto con le altre songs), la seconda vive di molti alti e pochi bassi talvolta piuttosto indisponenti ma. proprio per questo. ancor più forieri di divertimento, da sempre obiettivo essenziale degli Every Time I Die: l’ingresso in medias res di For The Record ci consegna quasi 3 minuti infuocati ma, a tratti (e soltanto a tratti, soprattutto nella parte centrale), abbastanza sterili; impressione similare, benché decisamente più ricercata, ci lascia la successiva White Smoke, dal breakdown melodico realmente inquietante (in senso positivo, naturalmente), mentre la groovy Turtles All Way Down, dal chorus fintamente psichedelico e dal finale quasi ipnotico, evidenzia incisive sfumature stoner e ci porta al secondo “long break”, quella Organ Grinder che recupera in gran parte le arroventate origini mathcore della formazione statunitense, ovviamente filtrate secondo le successive esperienze metal (in primo luogo) e southern (in ultimo).
La terza ed ultima sezione dell’album ci riporta metaforicamente all’inizio di tracklist, chiudendo il cerchio con un’onda d’urto semplicemente pazzesca: Host Dishorder apre le danze col solito inimitabile southern metalcore per poi cedere il passo a quella mortale fucilata di puro hardcore che After One Quarter Of A Revolution, la quale ci accompagna verso il definitivo e conclusivo ritorno all’hardcore punk primigenio della frizzante The Sweet Life, davvero un commiato superbo. Quanti, inoltre, avessero deciso di optare per la versione Limited Edition, ovviamente da consigliare (anche in virtù della modica differenza di prezzo rispetto alla release normale), potranno godersi la cavalcata impazzita di Buffalo 666 e soprattutto la dinamica Goddamn Kids These Days, finale spassoso e perentorio di un album che si colloca direttamente ai primi posti fra le uscite metalcore (con tutte le necessarie specifiche del caso) di quest’anno.
Alla fine di un’esperienza fisicamente distruttiva come l’ascolto per intero di New Junk Aesthetic (menzione speciale all'artwork, semplicemente affascinante, ad opera del chitarrista della band stessa Jordan Buckley), la sensazione più epidermica che si possa provare è quella di aver ascoltato un disco semplicemente folle ma, allo stesso tempo, estremamente rilassante: gli Every Time I Die uniscono vocals sempre graffianti e velenose ad un sound dalla compattezza schiacciante, attorcigliandosi intorno a decine di riffs talvolta sfavillanti talaltra mortalmente inquieti, come se le trame cerebrali sulle quali giacciono le inestricabili composizioni di questi 5 ragazzi di Buffalo emergessero in tutta la loro chiassosa furia dall’inizio alla fine del disco, senza pause e senza incertezze, con quell’orgogliosa avventatezza propria di una band giovane ma che ha già scritto un significativo pezzo di storia del metalcore. Tanto più che, se è vero che questo genere quasi non ha più ragion d’essere, vista la stagnante saturazione cui è andato incontro soprattutto nell’ultimo paio d’anni, stando alla discutibile moda di coniare sempre e comunque etichette (più o meno appropriate che siano) forse sarebbe il caso di cominciare già a parlare di post-metalcore e, in tutta sincerità, nessuno come gli Every Time I Die ne meriterebbe il titolo di pionieri: probabile però che, dopo un opera sensazionale come quest’ultimo New Junk Aesthetic, di simili ristrettezze non saprebbero assolutamente che farsene. Per la gioia nostra e di tutti quanti, della loro amabile violenza, proprio non riescono a fare a meno.
Giudizio finale, voto 8+ : album scanzonato ed esplosivo da parte di una band ancora giovane e già all'apice della propria carriera discografica, per la quale reinventare non significa rinnegare, recuperare non significa ricalcare, riscoprire non significa ricopiare; passato e presente di un genere ormia in agonia ma che, in album come questi, ritrova le ragioni del proprio passato e intravede l'orizzonte del proprio futuro. Da ascoltare e riascoltare, every time we die.