- Amanda Palmer - voce, pianoforte
- Brian Viglione - batteria, chitarra acustica
1. Good Day
2. Girl Anachronism
3. Missed Me
4. Half Jack
5. 672
6. Coin-Operated Boy
7. Gravity
8. Bad Habit
9. The Perfect Pit
10. The Jeep Song
11. Slide
12. Truce
Dresden Dolls, The
The Dresden Dolls: sotto questo nome (precedentemente Out of Arms) si riuniscono nel 2000, accomunati dalla comune passione per la musica, Amanda Palmer (voce, pianoforte) e Brian Viglione (polistrumentista ma soprattutto batterista). Il loro nome è una citazione dai protagonisti del romanzo "Fiori nell'attico" di Virginia Andrews e da una canzone dal gruppo inglese The Fall, sotto la quale si nasconde il richiamo al tragico bombardamento a tappeto di Dresda durante la seconda guerra mondiale, velato dagli occhi innocenti di una silenziosa bambola di porcellana presa direttamente dai, finiti da tempo, ruggenti anni '20 in cui fiorì il teatro cabarettistico. Il loro monicker è quindi molto di più, e riassume la memoria della tormentata repubblica di Weimar, nata in seguito alla disfatta del secondo Reich del kaiser Guglielmo nella Grande Guerra, e della sua successiva fine per opera del nazismo. Un periodo buio, le cui macchie non sono ancora state cancellate, dove anche la libera espressione artistica venne soffocata, con la conseguente soppressione delle arti considerate "degenerate", a partire dal mondo del cabaret.
Questa è infatti la proposta musicale, reinterpretata in un'ottica sociale moderna e aggiornata all'interno del mondo post-punk, adottata dal duo di Boston, che con uno spirito melanconico, a tratti quasi dark, rimette in sesto questo "teatro amaro", e lo arricchisce di tratti molto personali, come i vocalizzi sguaiati della Palmer e il suo quasi percuotere i tasti del pianoforte, o l'intensa batteria di Viglione, dal brio jazzistico e di intensità ispirata al punk e in parte anche all'heavy metal. L'esordio dei Dresden Dolls avviene, dopo la pubblicazione di un live (A Is for Accident), nel 2003 con il rilascio autoprodotto del debutto omonimo, che sarebbe poi stato ridistribuito nel 2004 dalla Roadrunner. Un ottimo esordio, è divertente e coinvolgente, a tratti scanzonato, capace di momenti più riflessivi ed emotivi, di grande effetto soprattutto quando parti più cupe entrano in un crescendo d'intensità che porta ad energiche esplosioni sonore, oppure quando brani dal piglio più spensierato cedono il posto ad altri più malinconici, per poi passare ad un cabaret più vivace e brioso. Musica particolare quindi, dato che i due si auto-definiscono, con un pizzico di ironia e spensieratezza, "Brechtian cabaret-punk", citando come influenze Kurt Weill, Marlene Dietrich, Sarah McLahan, ma soprattutto il teatro epico di Bertold Brecht (per l'appunto). E a questi aggiungiamo il rock di Patti Smith, Nick Caves, The Violent Femmes, Joan Jett, PH Harvey, e per finire, con le dovute proporzioni, Jarry Lee Lewis.
Un gruppo singolare, potremmo definire anche straniante, ma senz'altro intelligente nel suo messaggio e nelle sue provocazioni. E con molto senso dell'auto-ironia, come si può notare dal sito che riserva sorprese come la pubblicazione delle critiche negative e delle e-mail piene di insulti (come ammesso da Brian per non sembrare uno di quei gruppi che non fanno altro che mostrare i complimenti, anche superficiali, rivolti a loro in modo da per poter dire "guardate quanto siamo fighi, ascoltateci"). Il pensiero che va all'epoca degli anni '20 e '30 in Germania si riflette anche sugli anni attuali, in quanto il pressapochismo, l'ignoranza, la chiusura mentale in più di un'occasione fanno riecheggiare (fortunatamente solo) le ombre di quel periodo, portando alla luce una società, non solo quella americana, piena di contraddizioni, di disuguaglianze e di pregiudizio. E' come se Amanda fosse seduta su di un pianobar rappresentante gli stessi anni '20, mentre al contempo tende in avanti una gamba fermando con il piede l'epoca corrente, una sorta di collegamento fra passato e presente; intanto, fissa noi spettatori, chiamati non solo ad assistere passivamente allo spettacolo ma a recepirne il messaggio e a trarne una lezione. E su quest'ultimo concetto ad esempio dice Brian Viglione: "È importante che le persone imparino a pensare con le loro teste e a non essere come pecore in un gregge lasciandosi influenzare troppo da quello che viene detto da varie celebrità, politici o altri". The Dresden Dolls è intelligente nelle tematiche affrontate, un grido irriverente e scanzonato di libertà e anti-conformismo espressi nei testi di Amanda e accompagnati dalla carica del loro cabaret. La loro teatralità, esemplificata nei live di successo del duo (a proposito, consigliamo di cercare uno dei filmati della loro cover di War Pigs dei Black Sabbath) e nei loro costumi, è un'altra caratteristica interessante: perennemente truccati e vestiti come bambole o mimi, con lui che nonostante il sesso sembra recitare il ruolo più femminile, rimanendo in disparte e lasciando che i riflettori si concentrino su di lei, che si veste in una maniera a metà strada fra Ute Lemper e il punk, sfoggiando un atteggiamento fiero, anche impudente e mordace, e completini succinti. Ma in contrasto con questi ultimi, Amanda non si depila ascelle nè gambe, e c'è un motivo più serio di quel che si potrebbe pensare: "Il problema della cultura femminile oggi è che le ragazze sentono di dover sottostare a certe regole della femminilità come la depilazione totale, il trucco e le ore davanti allo specchio. Oppure, all'opposto, si sentono spinte ad abbandonare una certa idea di femminilità e a mandare a fare in culo i maschi, vestendosi sempre con pantaloni e maglie. Io voglio essere libera di depilarmi quando voglio, di mettermi le gonne quando voglio e di truccarmi quando mi va. Il femminismo vero è quando una donna non ha paura di fare nulla". Particolari che possono sfuggire, ma che nonostante l'apparenza banale racchiudono in realtà concetti concreti e intelligenti.
Un certo mood oscuro lo incontriamo quando un carillon introduce un'ottima semi-ballad come Good Day, lasciando poi spazio al pianoforte triste, alla rara (nei Dresden Dolls) chitarra acustica e all'espressiva voce di Amanda. E' una lunga introduzione all'album, più decadente e pacata dello scoppio che segue, e cioè Girl Anachronism, nettamente più vivace: "one, two, three, four!" esclama Amanda, e poi parte il pigiare furioso di tasti di pianoforte; una scarica di energia breve ma intensa. Come due brani iniziali siamo già ad altissimi livelli e si prosegue sempre su questi binari con il motivo beffardo ma dal retrogusto amaro di Missed Me, però il pezzo migliore di tutto il disco è certamente Half Jack, potente e memorabile canzone capace di passare da un crescendo emozionante ad una melodia intensa ed antemica, è il picco raggiunto dai Dresden Dolls senza dubbi. Non che il resto scada, dopo il breve intermezzo di 672 c'è la felliniana Coin-Operated Boy a catalizzare su di sè la maggior parte delle attenzioni con il suo motivetto intrigante, seguita dal retrò grintoso di Gravity e la divertente Bad Habit con le sue melodie incalzanti unite a pochi giri di note quasi country; però nella seconda metà dell'album i Dresden Dolls iniziano ad essere meno incisivi che nella prima e a volte, come in The Perfect Pit, appaiono leggermente ripetitivi, ma considerato che i due americani sono all'esordio e devono ancora macinare esperienza si può perdonare il piccolo calo, perché nel complesso stiamo ascoltando ancora un signor disco. Scorrendo fra brani più movimentati ed altri di umore più malinconico, l'ascolto procede scorrevole e sempre perfettamente godibile, anche quando capitano ballate più banalotte come The Jeep Song (tutto sommato passabile ma che segna con tutta probabilità il punto più basso dell'album), e si passa così a Slide, una sorta di seguito di Half Jack che protrae la parte più calma fino alla straziante brevissima esplosione finale (migliore della precedente, ma lascia un po' una sensazione di incompletezza e non è ancora ai livelli delle canzoni migliori) e alle dolci e nostalgiche melodie di Truce che si alternano a sofferenti ed emotive crescite d'intensità; il risultato è ottimo, rivaleggia con Half Jack e recupera appieno il calo avuto precedentemente, concludendo degnamente l'album.
Alla fine dello spettacolo, vien quasi da dire che i Dresden Dolls sono anacronistici; e proprio per questo rappresentano una delle novità più interessanti e originali dei primi anni del secolo, potremmo anche pensare al loro esordio come un fulmine a ciel sereno. Un debutto spettacolare che punge a fondo, eversivo, avverso alle regole più chiuse e vuotamente conformistiche della società, libero. L'energia che trasmette si avverte in tutto e per tutto, unico neo potrebbe essere un certo calo nella seconda metà del disco dovuto all'ancora acerba esperienza del gruppo, ma le premesse per realizzare qualcosa di grande in futuro ci sono tutte. Teneteli d'occhio.