- "Vurtox" Schmidt - voce, chitarra, basso
- Barthel - chitarra
- Maluschka - batteria
1. The Black Sea (05:16)
2. Dread It (04:24)
3. Don't Go Any Further (03:51)
4. Avalanche (05:08)
5. Gloria (06:11)
6. Aerophobic (03:21)
7. The Hole We Are In (05:35)
8. Save The Past (03:44)
9. Lava (04:05)
10. Too Many Broken Cease Fires (05:34)
11. Untiefen (03:59)
Gloria
Tornano i Disillusion, trio di Lipsia che, dopo un esordio di sorprendente qualità, quel Back To Times Of Splendor che 2 anni fa fece gridare al miracolo grazie al suo death melodico progressivo fortemente innovativo, aveva creato grandi aspettative nella schiera di fan rimasta stregata dal loro sound, tanto che molti di essi non vedevano l’ora di avere in mano il suo successore. La tacita speranza che serpeggiava era quella di poter sentire un’ulteriore evoluzione di quello stile compositivo, simile a quello degli Opeth come genialità e raffinatezza, ma allo stesso tempo opposto come atmosfere. Ebbene ora che finalmente questo successore è uscito si può dire con certezza quello che i trailer (disponibili su youtube e sul sito ufficiale della band) e l’artwork stesso avevano fatto subodorare: queste speranze sono state del tutto disilluse (guardacaso): questo disco è lontanissimo dall’essere il seguito stilistico di quello precedente. Ma non è per forza un male…
I Disillusion offrono qui una prova di coraggio cambiando completamente rotta rispetto allo stile di cui si erano fatti portabandiera e che, visti i risultati, gli avrebbe garantito un consenso sempre maggiore da parte del pubblico. Se nell’esordio la musica era onirica, epica e dolcemente carica di emozioni nonostante il suo essere rabbiosa, in questo Gloria essa è fortemente sperimentale, ed è “urbana” il termine che la esprime meglio. Le verdi distese che era capace di risvegliare nell’immaginario Back To Times Of Splendor sono qui spazzate via da colate di cemento claustrofobiche. L’impatto con questa nuova realtà è, per l’ascoltatore, specie se conosce già il gruppo per la sua produzione passata, quasi devastante nell’accezione peggiore che si possa immaginare. Si prova fastidio, sconcerto. E causa prima di queste sensazioni è la voce: Vurtox rinuncia quasi totalmente allo stesso tempo alla sua emozionante voce clean, alla voce sporca e alle linee vocali tecniche usate in passato a favore di una voce spesso satura di filtri, a volte quasi parlata oppure di stampo dark-gothic; vi è un abuso del filtro avente come risultato la “voce telefonica”…tutti elementi che l’ottuso metallaro fa fatica a digerire, inoltre l’enorme mole di elettronica e soluzioni fortemente fuori dagli schemi completa l’opera nel creare questo prematuro e negativissimo giudizio. Ma basteranno un paio di ascolti supplementari per arrivare al momento in cui quest’album si paleserà per quel che è: un qualcosa di molto innovativo, la classica opera che, per sua natura, balla sulla sottile linea che divide genio e pazzia; e come al solito la discriminante sarà l’apertura mentale dell’ascoltatore e la sua soglia di tolleranza ad intrusioni esterne al metal. In questo senso, per sapere se questo è troppo per voi, vi basterà ascoltare Don’t Go Any Further (tra l’altro disponibile in streaming sul sito della Metal Blade): se le sue linee vocali minimali e parlate con voce filtratissima e il suo chorus degno di finire nella OST di un film tipo La Regina Dei Dannati (per la scena della discoteca piena di gotici industrialoidi) faranno nascere in voi un fortissimo impulso a seguire il consiglio che rappresenta il titolo stesso (“non andare oltre”) ci sono buone possibilità che questo album non faccia per voi. In caso contrario buttatevici a capofitto e perdetevi nei meandri delle sue mille sfaccettature che lo rendono un album inclassificabile (qui messo riduttivamente in Industrial proprio per questo motivo). Ogni canzone ha vita propria ma risulta sempre coerente con il mood generale dell’album e paradossalmente è proprio l’unica canzone nello stile di Back To Times Of Splendor (Too Many Broken Cease Fires) a risultare fuori luogo pur essendo ottima.
In questo stupefacente album troverete di tutto, dall’opener The Black Sea con il suo industrial visionario alla title track che riesce a far convivere un’esasperata modernità con un’epicità solenne. Cosi come troverete Lava, strumentale dal sapore post metal, e l’intimismo nostalgico di Untiefen. Canzoni profondamente diverse ma accomunate dalla qualità. Vale comunque la pena di spendere un paio di parole in più per il poker d’assi che i tre teutonici calano in questa uscita: Dread It è una canzone sorprendentemente carica di groove, sviluppata su un ritmo quasi funky su cui roteano a turno gli archi elettronici e la voce di Vurtox talora rafforzata da ulteriori interventi di elettronica a rafforzarne alcuni passaggi. Un mix esplosivo che non potrà che entrarvi in testa per non uscirne più. Ma il vero tocco di genio di questa canzone è il ritornello che, preso dallo stile dell’album precedente, rappresenta un’inaspettata apertura ariosa ancorata, grazie alla sezione ritmica, al resto della canzone. Impagabile. La seconda perla risponde al nome di Avalanche. Parte black metal e ne plasma il riffing caratteristico fino a stravolgere il risultato sonoro. Il prodotto finale è una canzone avant-garde di alta classe da ascoltare e riascoltare. The Hole We Are In è l’incarnazione dell’unione tra vecchi e nuovi Disillusion. Splendido il crescendo di due minuti con cui comincia, splendide le linee vocali cangianti da voce grave e calda ad acuta e aggressiva fino a toccare il growl, splendido persino l’intermezzo quasi da discoteca. Infine Save The Past è un altro inno alla modernità perfettamente riuscito grazie alla saggezza con cui vengono dosate chitarre ed elettronica. Certo, in cotanta innovazione i Disillusion non sono comunque esenti da cilecche, Aerophobic è una strumentale quasi interamente elettronica che punta tutto sul ritmo ma che stenta a decollare e che sicuramente piacerà più ad un habitué delle discoteche. Ma resta comunque l’unico calo in questi 51 minuti.
In conclusione questi teutonici sorprendono tutti con questo secondo album e cercano di ripetere l’exploit del debutto creando qualcosa di nuovo. Nonostante non sia stato detto poco ci sarebbe ancora parecchio da dire su quest’album ma è cosi quando ci si trova in mano una di quelle uscite (purtroppo rare ultimamente) che non possono essere descritte semplicemente elencando i gruppi copiati. È praticamente impossibile trovare tutte le influenze che Andy “Vurtox” Schmidt (vero e proprio Deus Ex Machina del gruppo) e i suoi accoliti hanno fatto convergere nelle 11 tracce di questo disco ma se non vi spaventa ritrovare Rammstein, NIN, gli Ulver più elettronici, qualcosa degli ultimi Amorphis, qualcosa degli ultimi In Flames il tutto unito a cori operistici, archi elettronici, un po’ di new wave, un qualcosa di funky, accenni trip-hop, un retrogusto EBM e molto altro ancora… beh fatevi avanti, avrete pane per i vostri denti e non ve ne pentirete. Naturalmente il consiglio è quello di non basarvi sulle prime impressioni poichè questo è un album che cresce ascolto dopo ascolto. Aspettando il terzo della serie leviamoci tanto di cappello per questo gruppo che a giudicare dall’incipit della sua carriera è nato per battere nuovi sentieri e riesce qui nell’impresa di arrivare a un risultato dal punto di vista qualitativo praticamente identico all’esordio ma in modo totalmente diverso, cosa non da tutti. Must di questa fine 2006.