- Nocturno Culto – Voce
- Fenriz – Batteria, Chitarra, Basso
1.En Vind av Sorg
2.Triumphant Gleam
3.The Hordes of Nebulah
4.Hans Siste Vinter
5.Beholding the Throne of Might
6.Quintessence
7.Snø og Granskog (Utferd)
Panzerfaust
Registrato tra il Febbraio e l'Aprile del 1994 e pubblicato l'anno successivo, “Panzerfaust” fu per i Darkthrone l'ultimo lascito di una grande èra musicale e contemporaneamente un tentativo di rinascita per una nuova storia.
Fine di una splendida stagione poichè il gruppo era reduce dalla pubblicazione in rapida successione di tre capitoli fondamentali per il Black Metal, l'ultimo dei quali in ordine temporale rispondeva al nome di “Transilvanian Hunger”, un clamoroso album che definiva con la massima coerenza e perfezione le caratteristiche del 'True Norwegian Black Metal' (come veniva definito sulla ristampa del disco) o, più provocatoriamente, del 'Norsk Arysk Black Metal' (secondo il booklet della primissima stampa): quest'ultima definizione (assieme ad un paio di altre dichiarazioni poco 'politically correct') provocò anche una discreta mole di controversie, e fu una tra le ragioni che portarono al mancato rinnovamento del contratto con la loro etichetta discografica, forse anche ben disposta a lasciar andare via un gruppo che iniziava a 'scottare' e che non prometteva evoluzioni commerciali granchè significative negli anni a venire.
Dal canto loro, i Darkthrone ne approfittarono per andare 'controcorrente' e staccarsi da una label di grosse dimensioni, rea tra l'altro di non averli supportati adeguatamente durante i precedenti anni e di poter quindi cominciare, come dicevamo, una nuova fase della loro carriera.
Terminato dunque il rapporto contrattuale che legava la band all'inglese Peaceville Records, i Darkthrone passano sotto l'egida della norvegese Moonfog Productions (fresca di fondazione da parte di Sigurd Wongraven dei Satyricon, cui “Panzerfaust” è dedicato), dopo che Fenriz ebbe testato l'affidabilità della neonata label scandinava attraverso la pubblicazione dei dischi dei suoi progetti personali (Isengard e Neptune Towers).
Definitivamente perso per strada il chitarrista Zephyrous, che lascerà ufficialmente dopo questo disco (ma in realtà era rimasto isolato all'interno della band e quindi impossibilitato a contribuire sia a “Panzerfaust” che a “Transilvanian Hunger”), e con Nocturno Culto alle prese con un periodo piuttosto difficile della sua vita, pesantemente segnato dal consumo di alcol, il peso dei Darkthrone ricade quasi interamente sulle spalle di Gylve “Fenriz” Nagell, che al contrario vive un momento di massima fertilità artistica, purtroppo destinato a terminare bruscamente nel 1995, con i suoi contributi musicali destinati a declinare pesantemente per buona parte del decennio successivo.
Musicalmente “Panzerfaust” vede quindi un'influenza massiccia da parte del carismatico batterista norvegese, e il disco può essere visto come un raccoglitore di tutti quei suoni che all'epoca interessavano Fenriz, risultando pertanto un'opera dalla caratura musicale eccellente, ma non particolarmente omogenea: sono difatti presenti sia brani strettamente Black, sia influenze di matrice Isengard-Storm, sia momenti di revival Thrash. Quasi come una sorta di compensazione per l'altrimenti incontrastato dominio di Nagell (che si occupa di tutti gli strumenti, del songwriting e dei testi), si nota come la voce di Ted “Nocturno Culto” Skjellum risulti innaturalmente alta nel mix finale – una scelta che comunque va a premiare la prestazione del vocalist, agghiacciante e velenoso nel suo tipico screaming gracchiante.
Come già spiegato, i brani del disco possono essere raggruppati secondo tre filoni principali: il primo è rappresentato dalle sonorità già messe in evidenza in “Transilvanian Hunger”, ovvero quelle del puro Black Metal anni '90, caratterizzato dall'uso ed abuso di tremolo-riffing e dalla batteria che viaggia su ritmi tanto spediti quanto monotoni – questo sentiero è seguito senza variazioni di sorta nelle riuscite “En Vind av Sorg” e “Hans Siste Vinter”, due brani oscuri e melodicamente ipnotici nel loro sfibrante, incalzante ed aggressivo minimalismo.
Toni più maestosi, riconducibili al suono degli Isengard, vengono invece perseguiti nelle conclusive “Quintessence” e “Snø og Granskog”: quest'ultima è un epilogo per corni sintetici, voce e tamburi, dall'atmosfera notturna, severa e solitaria, in cui Fenriz declama una poesia dello scrittore norvegese Tarjei Vesaas. “Quintessence”, le cui liriche sono di origine decisamente meno nobile (sono difatti opera di Varg Vikernes, che già aveva scritto i testi di mezzo “Transilvanian Hunger”), è invece una canzone di Black Metal quasi 'epico', dall'incedere maestoso ed arrogante, che vede Culto intonare una delle sue performance più eccessive e strazianti. A testimonianza dell'atipicità di questo pezzo v'è il fatto che un riarrangiamento di questo brano sarà la base su cui gli Storm (un progetto costituito da Fenriz in combutta con Satyr) costruiranno “Noregsgard”, una canzone che verrà inserita nel classico del Folk Metal “Nordavind” (Moonfog, 1995).
I restanti tre brani di “Panzerfaust” mettono invece in mostra quella che era la vera passione di Fenriz all'epoca (e l'unica a tutt'oggi non rinnegata da Nagell, a differenza delle oramai disprezzate influenze Folk di Isengard e Storm, o del puro Black Metal di Transilvanian Hunger, addirittura definito 'commerciale' dal suo stesso autore in un'intervista): si sta parlando del (Black-)Thrash anni '80, ed in particolare degli svizzeri Celtic Frost, autori di opere imprescindibili per lo sviluppo del Black (classici quali il full-length “To Mega Therion” o i demo “Morbid Tales” ed “Emperor's Return” segneranno a fuoco non solo i Darkthrone e “Panzerfaust” in particolare, ma anche centinaia di altri gruppi).
Ebbene, Fenriz all'epoca della stesura di questo album era già disgustato da quello che stava diventando l'ambiente – e la musica – Black Metal, sia in patria (con la scena oramai autodistruttasi e musicalmente sempre più lontana da quella che era la primitiva e viscerale visione musicale di Fenriz) che all'estero (dove lo stile iniziava a diffondersi su larga scala, passando da una situazione sostanzialmente underground a una di ampissima diffusione mediatica), e rigettava quasi interamente il moderno stile Black 'norvegese' che egli stesso aveva appena contribuito a rendere famoso. Al contrario, andava a riscoprire le radici anni '80 del genere, promuovendo sconosciute Thrash Metal bands durante le sue interviste, ringraziando gli Exodus nei credits di “Panzerfaust” e utilizzando musica di questo tipo durante i suoi dj-set nei pubs Metal.
“Beholding the Throne of Might”, “Triumphant Gleam” e “The Hordes of Nebulah” (rigorosamente in ordine di crescente bellezza) sono nettamente influenzate da tutti questi fattori, e risultano pertanto essere brani giocati su cadenzati mid-tempos (con frequentissimi rallentamenti ai limiti del Doom) in cui le sei-corde tambureggiano con la rozza incisività tipica del Thrash Metal più grezzo, tenebroso e violento degli anni '80, abbracciando uno stile chitarristico radicalmente diverso da quello sentito poco prima in “En Vind av Sorg”. Tutto molto semplice, tutto molto efficace, secondo dettami vecchi e sorpassati ma omaggiati con la massima abilità ed onestà.
Insomma, mentre il Black Metal iniziava ad evolversi, a superare i propri limiti, a progredire, i Darkthrone decisero cocciutamente di andare in direzione contraria, tornando alle radici del genere, incidendo per una minuscola, artigianale etichetta appena nata, rimanendo ostinatamente legati ad una visione amatoriale, casalinga, dopolavorista del Black Metal.
A differenza della maggior parte dei loro colleghi, per i Darkthrone – e per Fenriz soprattutto – non ci saranno tour, non ci saranno passaggi in tv, non ci saranno major pronti a metterli sotto contratto. Dopo “Panzerfaust”, i Darkthrone entreranno in un lungo periodo di stagnazione: ci sarà un disco in cui Fenriz si limiterà alla sola batteria abbandonando il lato lirico ad innumerevoli ospiti (“Total Death”, 1996), poi la pubblicazione di vecchi demo ripescati senza troppa convinzione (“Goatlord”, 1996) e poi il nulla fino al 1999.
“Panzerfaust”, con la sua storica copertina, con il suo titolo significativo ma anche 'particolare' (ma le liner notes stavolta metteranno in chiaro che la band non vuole avere nulla a che fare con la politica), con la sua personalità spezzettata tra Black e Thrash di vario stampo, con il suo Fenriz (ancora per poco) tuttofare, con la sua manciata di canzoni clamorose, con la sua produzione da “ci basta uno scantinato e un quattro piste”, con la sua atmosfera peculiare, rimane quindi l'ultimo grande gioiello sfornato dai Darkthrone anni '90 – e, per esteso e romanticizzando il tutto, l'ultimo grande disco della “vecchia guardia” norvegese, costretta di lì a pochi anni ad evolversi o morire.
I Darkthrone strenuamente, stupidamente, coraggiosamente, scelsero di non evolversi e quasi morirono: il testamento musicale di quel loro momento rimane questo disco retrogrado, nostalgico e reazionario.
Ma terribilmente, sinceramente, onestamente affascinante.