- David Tibet
- Steven Stapleton
- Douglas Pearce
- Hilmar Örn Hilmarsson
- John Balance
- Tony Wakeford
1. Imperium I (6.08)
2. Imperium II (5.48)
3. Imperium III (7.02)
4. Imperium IV (3.15)
5. Be (0.53)
6. Locust (9.48)
7. Or (9.23)
8. Alone (7.39)
Imperium
“The eye is not satisfied with seeing
Nor the eye filled with hearing”
Dopo la creazione di dischi come “Nature Unveiled”, “Dogs Blood Rising” o “Dawn”, i Current 93 potevano oramai considerarsi maestri nell’arte di creare atmosferici soundscapes industriali caratterizzati da strati e strati di tape-loops, field-recordings, filtri vocali e sperimentazioni sonore di ogni tipo; giunto all’apice del proprio percorso Industrial, dal 1987 in poi David Tibet spingerà il suo progetto su coordinate sempre diverse, alla ricerca di un suono che rappresentasse adeguatamente la sua pungente e misteriosa personalità.
Quello fu anche uno dei periodi peggiori per David, all’epoca al lavoro in Islanda con alcuni suoi collaboratori (il risultato di quelle sessions si concretizzerà nel magnifico “Island”) prima che la sua salute peggiorasse repentinamente: un sospetto di sclerosi multipla o di cancro al cervello tormentava David, contemporaneamente affetto da crisi di agorafobia, perdita della coordinazione e attacchi di panico.
Questa situazione orribile si riscontra in modo cristallino nella musica di “Imperium”, probabilmente il disco più desolato, oscuro e privo di speranza della produzione di Tibet; le liriche affrontano da vari punti di vista il tema della morte, della distruzione, della decomposizione, prendendo in prestito passi del libro biblico dell’Ecclesiaste (“Imperium I” e “III”) o dal Dhammapada buddhista (“Imperium II”). La musica si discosta, come detto, dagli orrori Industriali di pochi mesi prima, trasformandosi in deprimenti suites fatte di recite sussurrate, urla soffocate nel buio e chitarre acustiche, che per la prima volta escono allo scoperto nella loro spoglia drammaticità. Le esperienze del passato non sono rigettate del tutto, poiché spesso affiorano campionamenti vocali o registrazioni stranianti di sottofondo, mischiate a sibilanti tastiere, primitivi motivi Folk o cori imbastarditi da drones micidiali. Neppure la presunta e superficiale ‘positività’ di “Imperium IV” è reale, in quanto nasconde una malcelata disperazione, sentimento costante in tutto il disco: magari non traspare chiaramente ad un primo ascolto, ma essa permea intimamente ogni nota di “Imperium”, rendendo questo disco un’esperienza perfino più dolorosa e tagliente dei dischi precedenti.
“Nights are long when one can't sleep
The road seems long for those exhausted
All people pass in turn
Just like the fall of ripened fruit
As all ripe fruit always falls and rots
So all who are born
Are always by their deaths destroyed”
La tetralogia del lato A, le cui sonorità sono sommariamente descritte nel paragrafo precedente, sfiora la perfezione –specialmente nei primi due capitoli – ed è caratterizzata da una sensibile vena intimista e da un flavour sacrale, grazie all’interpretazione tanto sommessa quanto feroce di Tibet, talmente nero e velenoso che perfino l’eco della sua voce ultra-effettata è bastante per un effetto raggelante che ha avuto pochissimi pari. Suggestiva e palpabile è l’atmosfera creata dalle parti strumentali e campionate, devastanti nell’annichilire con melodie profondamente toccanti i pochi barlumi di speranza che riescono a materializzarsi, mentre Tibet, in stato di trance, è l'allucinato direttore di questa atipica orchestra silenziosa, in realtà gestita dietro le quinte da uno Steven Stapleton ai limiti della perfezione nella gestione dei ritorni d'eco, delle sottilissime manipolazioni rumoriste e delle inquietanti pause sonore.
La seconda metà del disco, aperta dalla brevissima nenia “Be”, ha il proprio culmine nella superlativa “Or”, rigonfia di varietà e brillantezza: al logorroico monologo di Tibet fa da sfondo prima una soave melodia religiosa, poi un canto corale in tedesco, inquietante nel maestoso militarismo che gli si associa istintivamente. L’incantesimo si rompe poco dopo, per l’inserimento di alcune tintinnanti note di tastiera, di una ipnotica linea di basso e di martellanti e marziali percussioni che danno al brano un’atmosfera Dark, simile a quella udita poco prima in “Locust”, brano dotato di onnipresenti ritmiche tribali, metallici accordi acustici e una voce cantilenante, elementi che lo rendono accostabile ad alcune soluzioni proposte dai Death in June in “The World That Summer”.
Nonostante le strutture delle canzoni, le sperimentazioni e i suoni stessi appaiano più abbordabili e relativamente 'normali' per il periodo in cui fu creato, “Imperium” risulta in effetti un disco molto più difficile, sconvolgente e disturbante all’ascolto delle già spaventevoli creazioni Industrial del passato; “Imperium” si nutre delle suggestioni che provoca, delle emozioni che suscita, ed esula perciò da classificazioni rigide: questo disco è una nera pietra preziosa la cui bellezza fa rabbrividire di paura, perché pregna della negatività e della genialità che all'epoca scorrevano nelle vene del suo creatore.
Una delle massime espressioni della novantatreesima corrente.
“Whatever rises must also fall
All meetings end in separation
The final end of life is death
Sorrow arises from all beauty
From all beauty arises fear
When all beauty is given up
Neither sorrow nor fear exist
And the law is Imperium”