- Robert Smith - chitarra, tastiera, voce
- Laurence Tolhurst - batteria
- Simon Gallup - basso
1. The Holy Hour
2. Primary
3. Other Voices
4. All Cats Are Grey
5. The Funeral Party
6. Doubt
7. The Drowning Man
8. Faith
Faith
Nel 1981 i Cure erano già entrati nella ristretta cerchia dei gruppi britannici autori della nascente Dark-Wave e il secondo full-lenght, Seventeen Seconds, aveva appena delineato la via stilistica che Robert Smith avrebbe intrapreso nella fase successiva al debutto Post Punk di Three Imaginary Boys. Faith fu la diretta conseguenza di quell’evoluzione che interessò la band di Crawley dall’opera precedente: uno Smith sempre più tormentato interiormente, nel breve arco di tempo di un anno, compose il prodotto più cupo e funereo di tutta la carriera dei Cure, non tanto spettrale e folle come avverrà per Pornography, quanto sommesso ed introspettivo nei suoi lugubri aloni.
Una discrepanza di idee tra lo stesso leader della formazione inglese e il tastierista Matthieu Hartley, entrato in occasione della pubblicazione di Seventeen Seconds, portò sia l’allontanamento dello stesso dalla band, sia l’apparizione di Smith come tastierista oltre che cantante e chitarrista: ne derivò un impiego diverso dei sintetizzatori, che si trasformarono in strumento “tragico” per i Cure, capaci di plasmare atmosfere drammatiche in ognuna delle otto macabre danze che formano il platter.
Il concept sulla religione ideato da Smith, introdotto da una copertina che testimonia l’ulteriore passo nella ricerca stilistica dalle foreste sfocate di Seventeen Seconds, è alquanto intricato al suo interno, poiché dal punto di vista lirico non presenta la problematica della fede come unico tema dell’album; i Cure risentono ancora parecchio della matrice Post Punk delle origini, andando a soffermarsi su questioni sociali, come il sistema scolastico inglese (la seconda Primary) ed esibendo delle ritmiche influenzate profondamente da Three Imaginary Boys.
Tuttavia, la maggior parte del disco propone delle atmosfere rarefatte, lente e soffocanti, descritte in particolare da una sezione ritmica opprimente e a tratti insostenibile perché meccanica nel suo andamento: senso di perdita e malessere vengono evidenziati in episodi come l’opener The Holy Hour o Other Voices, percorse dalle tuonanti parti di basso e dal delay della chitarra; anche l’approccio vocale si mantiene sulla scia di quello di Seventeen Seconds, lento e sussurrato, simbolo di sconfitta e di dissoluzione.
Per tessere le sue poesie di morte, Smith si affida a fonti letterarie, Shakespeare in primis, ripreso nella struggente All Cats Are Grey: in un crescendo di dolore si giunge al vero capolavoro di Faith, la tristissima The Funeral Party, dove Smith si abbandona ad una nenia funebre, spaventosamente toccante nel suo monotono e decadente incedere. Emozioni scorrono sulla pelle degli ascoltatori, che assistono ad una regolare marcia dove i presenti possono ballare e piangere contemporaneamente. E passando attraverso una lamentosa Doubt, reminescenza Post Punk dal ritmo veloce e tuonante, si arriva ad altri oscuri brani quali The Drowning Man, originalissima nella sua direzione vocale affannosa e asfissiante e, per chiudere, la title-track Faith, ennesima dolorosa testimonianza di un’opera completamente votata ad esplorare la crisi interiore umana nelle sue molteplici forme.
La fede è sì l’unica speranza per l’uomo, capace di alleviare lo sconforto di una vita senza spiraglio di luce, ma essa costituisce anche una sconfitta a lungo termine per un individuo che trova sollievo nella sola morte.
Nel 1981 il giovane Smith entrò, durante la composizione di Faith, in una pesante crisi depressiva, che fece pensare al già vastissimo pubblico raccolto dai Cure in Inghilterra, memore della scomparsa di Ian Curtis dei Joy Division, ad un possibile atto suicida da parte del front-man. Eppure Robert riuscì a riprendersi gradualmente proprio attraverso la sua musica, concludendo Faith e completando la “trilogia Dark” con Pornography.
Pertanto Faith rimane una delle perle nere della Wave ottantiana, non sicuramente il miglior album della carriera dei Cure, ma un documento importante di un’epoca carica di stravolgimenti sociali, spesso riflessi nell’anima di musicisti introversi e chiusi come il grande Robert Smith.