- Chris Cornell – voce
- Timbaland - produzione
1. Part Of Me (5:14)
2. Time (4:39)
3. Sweet Revenge (4:10)
4. Get Up (3:35)
5. Ground Zero (3:09)
6. Never Far Away (5:06)
7. Take Me Alive (4:36)
8. Long Gone (5:15)
9. Scream (6:14)
10. Enemy (4:35)
11. Other Side Of Town (4:48)
12. Climbing The Walls (4:50)
13. Watch Out (8:07)
Scream
Questa recensione, forse, non avrebbe mai dovuto essere scritta, così come questo album, forse, non avrebbe mai dovuto essere pubblicato né registrato né mai, neppure per nessuna ragione al mondo, concepito. Chi conosce i rudimenti di storia della musica non potrà non riconoscere il valore assoluto di un’artista esemplare come Chris Cornell: inarrivabile protagonista della scena grunge di Seattle nei primi anni ’90 con i suoi celeberrimi Soundgarden, leader incontrastato (assieme all’amico e collega Eddie Vedder, mente e corpo dei concittadini Pearl Jam) di una rivoluzione musicale dalla quale hanno tratto linfa vitale post-grunge, modern rock e persino parte del vituperato nu metal, con la sua voce struggente, in grado di raggiungere cime pressoché inesplorate, con i suoi testi crepuscolari eppure vibranti ed energici nonché con la sua sola statuaria presenza, non solo fisica, ha saputo crescere un’intera generazione di musicisti ed appassionati, collocandosi per sempre nella memoria storica di ogni melomane.
Chris Cornell ha saputo superare innumerevoli difficoltà, prima fra tutte una delicata operazione chirurgica alle sue inestimabili corde vocali, dapprima ritenute compromesse ma poi miracolosamente ripresesi all’epoca dei sottovalutatissimi Audioslave: un impegno inatteso ed eccessivamente intenso, pochi album all’attivo di cui 2 probabilmente inferiori alle considerevoli potenzialità del combo californiano (non solamente per i motivi precedentemente citati), poi le prevedibili divergenze artistiche coi 3 reduci dalla sensazionale esperienza in compagnia del funambolico Zach De La Rocha nei Rage Against The Machine e quindi lo scioglimento, tanto insperato quanto prevedibile. Nei tempi morti, un artista così dinamico e poliedrico non sarebbe certo potuto restare mani in mano: prima la deliziosa opera tributo firmata Temple Of The Dog, poi il primo interessante album in solitaria, quell’Euphoria Morning ingiustamente finito a spolverare scaffali già troppo affollati, quindi un secondo infruttuoso tentativo solista, quel Carry On memorabile solamente per la gradevole colonna sonora dell’ennesimo capitolo della saga di James Bond, 007 - Casino Royale.
Nonostante questa inesorabile discesa, solo e soprattutto qualitativa, l’indimenticabile artefice di capolavori quali Black Hole Sun o Spoonman non ha voluto arrendersi, finendo, come raramente capita ai grandi, col raschiare davvero il fondo di un barile insolitamente crudele: Scream, infatti, è quanto di peggio ci si potesse aspettare, ed un simile giudizio va ben al di là dell’ineffabile constatazione di trovarsi di fronte ad una mera operazione commerciale. Nulla in contrario sulla scelta di un genere prettamente danaroso come il moderno R’n’B, finto e patinato al punto tale da confondersi coi più stucchevoli rotocalchi di gossip; nulla da eccepire nemmeno a proposito della scelta di affidarsi ad un produttore navigato e sufficientemente esperto come Timbaland, nel suo specifico campo molto più di una riprovevole garanzia di successo (nonostante gli ultimi imprevedibili flop, su tutti quello alle dipendenze di una certa Madonna).
La verità è che Scream è un album piatto, noioso, monotono, che naviga in maniera a dir poco imbarazzante nel continuo ed inesorabile plagio di sé stesso, che mortifica in modo più che sacrilego una delle voci più suggestive e potenti che la dea Musica abbia mai partorito, che riesce nell’impresa di trasformare le più scontate e desuete ruffianerie (qui del tutto assenti) in veri e propri tocchi di genialità creativa, dal momento che, ad eccezione delle tracce 6 e 8 (dove fanno fugaci comparse le chitarre, ma la valutazione può dirsi ugualmente molto generosa), non c’è nessun episodio che possa a buon diritto definirsi orecchiabile, piacevole, catchy, che si faccia soprattutto ricordare per un ritmo, una melodia, un ritornello di irrinunciabile immediatezza.
Sarebbe troppo facile sparare a zero su un lavoro condannato già in partenza, in via del tutto pregiudizievole, per il semplice fatto di distruggere definitivamente l’immagine divina e l’invidiabile carriera di un idolo “di quelli che non ne esistono più”, ma la drammatica verità è che ogni premessa negativa si potesse formulare a proposito di questo album, essa trova perfettamente riscontro in ogni singola traccia di quest’ultimo: non soltanto, come già precedentemente rilevato, assistiamo all’abbrutimento artistico del colpevole Chris Cornell, ma ci troviamo di fronte persino ad una produzione svogliata e manierista ad opera di un Timbaland forse subissato di impegni e richieste, forse frastornato dal recente successo internazionale, forse appagato degli incalcolabili rimpinguamenti del proprio conto in banca, il quale non sfrutta le potenzialità vocali del suo artista, non cerca un inedito e accattivante compromesso tecnico fra generi in apparenza agli antipodi quali rock e R’n’B, non sperimenta ritmiche e sonorità diverse e più appropriate al background personale e soprattutto alla natura più intima del proprio vocalist, semplicemente gli cuce addosso un abito evidentemente preconfezionato nella speranza che basti il proprio nome a scalare le classifiche e garantirsi un cospicuo contributo di pensionamento.
Le ragioni di una simile operazione sono a dir poco oscure: se da un lato è apprezzabile la volontà artistica di esplorare nuovi orizzonti musicali, allo stesso tempo è immediato fraintenderla con la mera voglia di ottenere quel successo economico troppo spesso sfuggito al pur bravo Chris Cornell, soprattutto all’epoca dei validissimi Soundgarden, giacché la stessa pseudo-reunion firmata Audioslave aveva sparso attorno a sé la maleodorante sensazione di compromesso economico, vista e considerata l’ingentissima fan base dei defunti (ma recentemente resuscitati) RATM e dei Soundgarden.
Pur nell’inevitabile alone di sospetti, il nostro beniamino avrebbe potuto dar vita ad un’interessante prodotto artistico, assolutamente piacevole e ben fatto, tanto più in proporzione alle pessime premesse della gestazione, ma così non è stato: parafrasando un titolo scaramanticamente molto evocativo, Scream è davvero un album che fa urlare dalla disperazione, in quanto, in un colpo solo, riesce nell’impresa di tradire i discepoli del pioniere grungiano, di deludere persino gli appassionati del moderno R’n’B, di mettere in discussione le qualità stesse di un produttore come Timbaland, forse anzitempo eccessivamente osannato.
Il nostro augurio, nonostante tutto, è che Chris Cornell possa risorgere a nuova vita (artistica), individuando finalmente una strada musicale definitiva e ragionevole che sappia valorizzare appieno le sue indimenticabili qualità vocali e in sede di songwriting: Scream non è un addio, ma, crediamo e speriamo, soltanto un avventato e malriuscito arrivederci.