Nel marasma generale di gruppi che ripropongono forse in maniera fin troppo pedissequa le sonorità degli 80s, riescono a farsi largo tra la folla, a suon di feedback e compressioni, un gruppo dal nome tanto curioso quanto originale, loro sono i Ringo Deathstarr e vengono da Austin, Texas. Il giovane terzetto, dopo aver rilasciato solo due EP (2007 e 2009) con cui erano riusciti a scombussolare la scena shoegazer non tanto per l'originalità della proposta, quanto per l'ottima fattura delle loro canzoni, debutta sulla breve distanza con questo Colour Trip in un vero e proprio viaggio di colori. Si perché i nostri riescono a mischiare come sulla tavolozza di un qualche trasandato pittore impressionista tre fondamentali colori primari: My Bloody Valentine, Jesus & Mary Chain e Primitives. Dai primi ne prendono le distorsioni effettate e cariche di delay che ne hanno contraddistinto l'immortalità, dai secondi ne catturano l'inimitabile e mitizzato scontro tra melodia e rumore che li ha portati nell'olimpo, mentre dai terzi ne catturano le venature pop andando a diluire e forse ad annacquare un colore che sarebbe altresì risultato più spigoloso.
Imagine Hearts è infatti pittura su carta vetrata con il suo continuo incedere di chitarre che raschiano e tagliano la carta andando a scoprire una voce femminile nascosta ed oltremodo offuscata da essa. Una fortuna dei nostri è la possibilità di alternare, appunto, la voce di Alex Gehring, più sensuale e versatile a lidi dream pop, a quella maschile e più cupa di Eliott Frazier come nella successiva Do It Every Time e nel singolo di lancio So High in cui le voci riescono a bilanciarsi in un perfetto blend etereo perso in echi ridondanti. Una varietà di sfumature che si distinguono non solo per densità di colore ma anche per spessore di strati, ne è un chiaro esempio la cavalcata iniziale di Kaleidoscope (titolo preso in prestito ai Ride), chitarre robuste ma non invadenti e non ritornanti in guisa di feedback galoppano insieme alla voce di Eliott. Le ritmiche sono qui sostenute ma funzionali ad accompagnare l'intera traccia in un pulsare stratificato e continuo, un incedere incentrato più sul colore che sull'idea del disegno, in cui le emozioni dell'artista non vengono nascoste e camuffate, ma ripetute e sussurrate ("got a crush on you, what can i do?") in rapidi colpi di spatola, attraverso una ricerca continua di nuovi colori per fotografare ed immortalare un paesaggio: "can you show me colours, no one knows?". Concettualmente rimandanti a pilastri shoegaze quali Drop Ninetinees, Kitchens of Distinction o ai più di nicchia Medicine, i Ringo Deathstarr sono in grado di confezionarci undici brani con un potenziale melodico trascinante e che sfocia spesso in ritmiche anfetaminiche (Never Drive, Chloe), ma che non scade mai in una mera gettata di muri sonori fini a se stessi. Non mancano inoltre episodi più sognanti (Day Dreamy) in cui l'immaginario evocato è quello di oscuri paesaggi presi da un film di Sofia Coppola visto al rallentatore. Le differenti pennellate sono visibili anche nella struttura delle canzoni, in Tambourine Girl (per me un richiamo o un omaggio a Pam Berry e ai suoi Black Tambourine) prima ti fanno sanguinare le orecchie con l'incalzare nauseabondo ed ipnotico dell'effettistica iniziale, poi ti risvegliano di colpo con l'attacco della strofa dalle distorsioni filtrate e smorzate, per poi ancora rigettarti nei colori tetri del 'wall of sound'. La conclusiva You Don't Listen non frena in alcun modo e per nessun motivo i ritmi sostenuti e compulsivi dell'album che dilagano qua più che mai in richiami atavici.
La musica dei texani è comunque ingannevole, perché ti rendi conto che infilato dentro l'immensità del loro suono scopri una vulnerabilità pop che pulsa, perché è più che mai viva, ma è racchiusa ed annebbiata in accordi di chitarre pronti a mettere delle barricate e allo stesso tempo scostarsi per liberare schizzi di pittura che riescono in pochi istanti a far breccia nei cuori più straziati e morbosi degli shoegazer.