John Dyer Baizley: voce, chitarra
Peter Adams: chitarra
Summer Welch: basso
Allen Blickle: batteria
Disc 1
1. Yellow Theme
2. Take My Bones Away
3. March to the Sea
4. Little Things
5. Twinkler
6. Cocainium
7. Back Where I Belong
8. Sea Lungs
9. Eula
Disc 2
1 Green Theme
2 Board Up the House
3 Mtns. (The Crown & Anchor)
4 Foolsong
5 Collapse
6 Psalms Alive
7 Stretchmarker
8 The Line Between
9 If I Forget Thee, Lowcountry
Yellow & Green
Tanti, forse troppi, hanno scritto la loro opinione sul nuovo disco dei Baroness. Ci sarebbe da chiedersi come mai, dal momento che la band di Savannah (ma originaria di Lexington, in Virginia) è una realtà ancora relativamente giovane, con soli 2 album e sue Ep all’attivo prima di questa uscita, nonché una band considerata fin troppo debitrice alla scuola dei maestri Mastodon e, più in generale, all’intera scena georgiana. In realtà, un così vivo interesse nei confronti del loro nuovo album è del tutto giustificato, ed è presto detto il motivo.
Innanzitutto, abbiamo a che fare con album diviso in due parti, o meglio, un vero e proprio doppio album. Chi conosce bene i Baroness sarà sicuramente già avvezzo ai loro titoli cromatici, che legano indissolubilmente una loro creatura ad uno specifico colore. Come ben sappiamo, se il rosso porpora del Red Album sguinzagliava uno sludge metal di matrice rigorosamente georgiana (ma non privo di una certa fantasia), il successivo blu acceso del Blue Record si muoveva invece su lidi maggiormente creativi, forse più heavy metal ma non per questo meno sporchi.
Bene, se ora i nostri hanno deciso di abbandonare la violenza di quei colori così forti e vividi, per abbandonarsi alla rilassata pacatezza del giallo e del verde (“Yellow & Green”), che guarda caso sono proprio i colori base per la formazione del blu, non è affatto una scelta casuale dettata dalla mancanza di colori in repertorio, ma una vera e propria scelta stilistica, fortemente legata alla nuova musica incisa in questo platter .
I Baroness, in una parola, sono cambiati, per quanto le fumettose copertine del leader John Baizley non abbiano subito mutazioni di sorta. Ora di sludge ce n’è poco e, a dire il vero, lo stesso si potrebbe dire per il metal in senso stretto. I suoni del nuovo album, infatti, sembrano avvicinarsi molto di più ad un certo alternative rock d’autore, legato a doppio filo sia al grunge robusto degli indimenticabili Alice in Chians o Pearl Jam, sia al post/alternative metal più melodico di band come City of Ships o, perché no, Oceansize. Queste considerazioni, tuttavia, si limitano al “disco giallo”; il suo “fratello verde”, infatti, sembra infinitamente più debitore all’intera scena psychedelic rock degli anni ’70, quella che dai Pink Floyd in avanti, ha fatto proseliti un po’ ovunque con le sue atmosfere liquide e lisergiche.
Era prevedibile, quindi, che un disco del genere abbia diviso completamente i fan. Da un lato, vediamo i vecchi ammiratori “duri a morire”, indissolubilmente legati allo sludge più viscerale, che proprio non riescono ad accettare un tale cambiamento di rotta. Le critiche più comuni? Nuovi Baroness venduti, commercializzati, senza idee, lagnosi, intellettualoidi, pallosi e così via.
Dall’altra, abbiamo non solo una nuova fetta di fan, che sicuramente si avvicinerà alla band grazie alla loro rinfrescata presa commerciale (più all’estero che in Italia, a dire il vero), ma anche una rinnovata selezione di vecchi fan che hanno compreso fino in fondo la nuova scelta stilistica della band e che hanno apprezzato e rispettato la loro evoluzione musicale, promuovendo quest’album a pieni voti. Personalmente, non posso far altro che aderire a quest’ultima visione del quartetto di Savannah e bandire ogni pregiudizio nei confronti di questo splendido doppio disco, mettendo subito in chiaro una cosa: “Yellow & Green” è un grande album, creativo, maestoso e coinvolgente, e se non è un capolavoro, poco ci manca.
Qualcuno potrà dire: ma non parliamo forse della stessa situazione vissuta dai Mastodon con “The Hunter”? Assolutamente no, rispondo io: se l’ultimo lavoro del combo di Brent Hinds dimostrava una vera e propria mancanza di creatività e inventiva, oltre che ad una commercializzazione dei suoni tutto sommato criticabile, lo stesso non accade per i Baroness, che al contrario sfoggiano un’ispirazione fuori dal comune proprio attraverso il cambiamento e “l’ammorbidimento” delle loro composizioni.
In ogni caso, se c’è qualcosa che la maggior parte dei detrattori e dei sostenitori del nuovo album ha dimenticato di sottolineare, se mai l’avesse notata, è proprio il fatto che l’evoluzione e il nuovo volto dei Baroness non costituisce affatto un cambiamento stilistico tout-court, ma rappresenta piuttosto una vera e propria continuazione con l’immagine che hanno saputo ritagliarsi in passato. Infatti, una volta superata l’introduzione del “Yellow Theme”, l’energia di “Take My Bones Away“ (non a caso estratto come primo singolo dell’album) non può non ricordarci quella di Blue Record e di Red Album. L’attitudine è diversa, certamente: la band è più melodica, più morbida, più orecchiabile e più “live” di quanto non fosse prima; eppure, è sempre lei, perfettamente riconoscibile, e la sua nuova musicalità sembra essere molto più un’evoluzione ragionata e coscienziosa, che non piuttosto una svolta assennata dettata dal successo e dalla voglia di conquistare nuovi fan. I riff circolari conquistano e gli assoli ammaliano, mentre le tastiere offrono un tappeto ideale per l’energia del combo. Lo stesso si può dire per la successiva “March To The Sea”, forte di un hard rock nervoso e di un accento bluegrass tipicamente Baronessiano, mentre la splendida “Little Things” è semplicemente ammaliante, nelle sue tinte chiaroscure, supportate da riff eleganti e psichedelici, ma che cedono volentieri anche all’insegnamento post-hardcore dei Fugazi. La delicata e soffusa “Twinkler”, perlopiù acustica, è l’introduzione migliore per la corale psichedelica punk di “Cocainum”, brano semplicemente travolgente. “Back Where I Belong” mi ha convinto un po’ meno, forse perché mi ha ricordato troppo alcuni riff di “Silent Waters” (Waeving the Incantation?) degli Amorphis, ma del resto il suo incedere melodrammatico ha sicuramente la sua presa sull’ascoltatore, soprattutto nella parte finale. I riff rockeggianti “alla Thin Lizzy” di “Sea Lungs” mettono la carica, sebbene siano più manieristici, ma la vera e propria sorpresa arriva con “Eula”, forse il brano migliore del lotto: una canzone lenta, malinconica e avvolgente, che si insinua lentamente nel cervello e lo ammalia senza via di scampo, fino ad un emozionante e sostenuto finale. Una chiusura con i fiocchi.
Arrivati a questo punto, abbiamo solo analizzato “Yellow”. Ma il platter non finisce qui: cosa dire del suo fratello gemello “Green”? Affamati di nuovi riff, lo adagiamo nel lettore ed ecco che il “Green Theme” ci sommerge con la sue atmosfere psichedeliche, mentre il riff iniziale di “Board Up The House” ci risveglia dall’incanto, catapultandoci nuovamente nelle sonorità più tipiche dei Baroness, che però diventano ora più melodiche e orecchiabili, stampandosi immediatamente in testa. La splendida “MTNS” avvolge con il suo ritmo sostenuto e “Foolsong” non è da meno, pacata, ondeggiante, nostalgica e così squisitamente retrò. Le divagazioni acustiche di “Collapse” sono una piacevolissima pausa per la psiche, nonché la preparazione migliore per la strana “Psalm Alive”, dai ritmi bizzarri e da un’insolito uso dell’elettronica. Infine, i ritornelli hard rock di “The Line Between”, orecchiabilissimi e ipermelodici, tengono per mano, conducendo l’ascoltatore fuori da questo incredibile e lunghissimo viaggio, che si risolve nella purificazione catartica di “If I Forget Thee, Lowcountry” (usata anche come colonna sonora per il teaser dell’album).
Baroness, quindi: band talentuosa e, soprattutto, band coraggiosa. Hanno saputo prendersi i loro rischi e creare alcuni tra i pezzi sicuramente più belli e coinvolgenti della loro discografia, cambiando il loro modo di pensare e di comporre e spingendosi molto più oltre di quanto i loro “colleghi” Mastodon non abbiano saputo fare. Il tutto messo in risalto dalla produzione cristallina di John Congleton (Explosions In The Sky).
Un disco meraviglioso e coinvolgente, che ho ascoltato fino allo sfinimento come una vera e propria droga, imparando a memoria ogni sua singola traccia. Era da tanto, troppo tempo, che non succedeva una cosa del genere, e spero che la raffinata ispirazione di Yellow & Green sappia conquistare voi come ha saputo fare con me.
Per quanto mi riguarda, tra i top album del 2012.