- Ashley Morris - viola, voce
- Casey Kaufman - violoncello, voce
- Chris Click - synth, organo, clarinetto, tuba, voce
- Devin Lamp - chitarra, piano, synth
- Dillon Smith - violino, voce
- Drew Binkley - basso
- Jeff Ellinger - batteria
- Rob McKinney - chitarra, percussioni, melodica, glockenspiel, voce
1. Trapped Behind Silence
2. Return To Us
3. Dark, Dark My Light
4. Safely Caged In Bone
5. Sword And Shield
6. Every Fear
7. In And Through
8. From This Vantage
From This Vantage
Una chitarra, un trio d'archi, organo, clarinetto, basso e batteria, glockenspiel, piano e synth. Insieme, elementi mutanti di una fantastica orchestra (post) rock chiamata The Ascent of Everest. Vengono da Nashville, Tennessee, e non si spaventano affatto di portare sulle spalle il fardello della grande tradizione classical in salsa rock a stelle e strisce. Ma guai ad aspettarsi il solito slocore condito fino allo stremo di tristi violini e atmosfere decadenti; avessero intrapreso quella strada, probabilmente degli Ascent of Everest non parlerebbe nessuno e, non a caso, sono sulla bocca e sulle pagine di mezza America proprio perchè da quello stilema più che mai abusato e col tempo consolidatosi sono riusciti a districarsi, plasmando una formula musicale peculiare, intensissima e, soprattutto, travolgente. Non è una coincidenza che progetti del calibro di A Silver Mt. Zion, Kayo Dot e This Will Destroy You abbiano gli abbiano più volte scelti come spalle e co-headliner dei propri concerti.
From This Vantage è il mezzo capolavoro in cui tutto questo universo è splendidamente rinchiuso.
Parlando di archi nel rock dell'ultima decade è ovvio che vengano in mente act come Rachel's, Saeta, Balmorhea, Dakota Suite, Picastro: il punto è che se da una parte gli Ascent of Everest mostrano qualche minimo contatto stilistico con le sopracitate band, dall'altra è anche vero che l'orchestra di Nashville si muove lungo coordinate compositive decisamente differenti, scartando da subito l'abusato connubio di chitarre lentissime e soffici cornici di archi dal sapore decadente che lo slocore 'cameristico' ha assorbito come sue primarie componenti.
Sin da suoi primi vagiti, al contrario, From This Vantage dona a viola, violino e violoncello una differente dimensione espressiva; tranne che in qualche episodio più sommesso, gli archi degli Ascent of Everest sono dinamici e instancabili, per certi versi quasi rabbiosi, ed è proprio il mesmerizzante effetto derivante dal loro contrasto con le travolgenti cavalcate ritmiche sottostanti a rendere From This Vantage un album estremamente particolare.
Le spesse stratificazioni di archi, che a tratti ricordano Patrick Wolf, trasportano le trame strumentali dell'album per tutta la sua durata e, ad ogni episodio, si arricchiscono di diversi particolari cromatici e differenti modulazioni atmosferiche. Perchè se un brano come Return to Us (probabilmente l'unica pecca del disco) si scioglie in un melodrammatico - e alquanto prevedibile - sinfonismo alla Mono, gli altri gioielli di From this Vantage si aprono con grande maestria a sapori, atmosfere e melodie di tutt'altra estrazione. Il capolavoro Dark, Dark, My Light ne è l'esempio più immediato nella sua iniziale dimensione semi-onirica e dalla soffice psichedelia; sospesa tra cullanti vocalismi (sia maschili che femminili) e splendidi contrasti tra gli arpeggi di sottofondo e l'ondulato moto degli archi, Dark, Dark, My Light colpisce profondamente con la sua smussata eleganza e i toni crepuscolari delle sue melodie, non disdegnando al contempo andamenti più robusti e battiti possenti (come dimostrato in seguito anche dalle ondulate dinamiche della seconda parte della splendida Sword and Shield). Bastano questi due brani per cominciare a comprendere realmente di che pasta è fatto il sound degli Ascent of Everest, con tutti i suoi perenni contrasti atmosferici e i suoi salti improvvisi tra ondulati lirismi classical (la dolce Safely Caged in Bone) e robuste esplosioni post-rock (aspetti che il capolavoro conclusivo From this Vantage fonde in una formula perfetta). Dopo le aperture più solari e sognanti, le distensioni più pacate e gli attimi maggiormente psichedelici, From this Vantage abbraccia territori propriamente malinconici solo con il gioiello Every Fear, momento di assoluta perdizione emotiva: aperto da un incastro di archi più cupo e inquietante del solito, il brano non tradisce comunque gli andamenti più infuocati del disco, ma lo fà in modo ancora più intenso e vibrante: il riff che precede il toccante finale, con la chitarra che per la prima volta si immerge nella distorsione, è la perfetta simbiosi di tutti gli elementi stilistici della band, il simultaneo cammino strumentale che raggiunge la sua forma perfetta, collegando archi, chitarra, batteria e voce in una marcia travolgente.
E' così che lo slocore da camera dei Dakota Suite, le suggestioni classical di Rachel's e Balmorhea, il pop intimista dei Saeta e il sinfonismo obliquo dei Godspeed You! Black Emperor si fondono con ricercate trame post-rock e danno vita ad una creatura musicale multiforme nonostante le ripetizioni, dinamica nonostante i background stilistici e toccante pur senza scadere nel più banale romanticismo. Una musica che al suo interno conserva tanto la riflessione intimista quanto l'afflato, per così dire, epico: i climax purissimi, le atmosfere rarefatte e irreali e i raffinati giochi timbrici degli Ascent of Everest sono un qualcosa che, al giorno d'oggi, nessuno più sa ormai fare, e se lo sa, non lo fa con la stessa eleganza e con la stessa enfasi compositiva di questa splendida orchestra americana.