Voto: 
8.5 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
Island Records
Anno: 
1996
Line-Up: 

- Darius Keeler - basso, tastiere, programmazione
- Danny Griffiths - chitarre, tastiere, percussioni

GUESTS:
- Roya Arab - voce
- Rosko John - voce mc
- Ali Keeler - violino
- Peter Barraclough - flauto, chitarre
- Julia Palmer - violoncello
- Matheu Martin - batteria, percussioni
- Karl Hyde - chitarra, basso
- Steve Taylore - chitarre
- Jane Wall - cori
- Siobhan Sian - cori
- Jane Hanna - corno francese
- Anita Hill - triangolo

Tracklist: 

1. Old Artist (4:07)
2. All Time (3:53)
3. So Few Words (6:14)
4. Headspace (4:15)
5. Darkroom (4:34)
6. Londinium (5:21)
7. Man Made (4:40)
8. Nothing Else (4:40)
9. Skyscraper (4:27)
10. Parvaneh (Butterfly) (3:53)
11. Beautiful World (6:37)
12. Organ Song (2:26)
13. Last Five (5:48)

Archive

Londinium

Molti dei movimenti più celebri hanno una località geografica di riferimento, una città in cui la scena nacque e prese piede, sviluppandosi e giungendo alla ribalta. Gli esempi sono dei più disparati, dal prog jazz di Canterbury al grunge di Seattle passando per la NWOSHM di Gothenburg. Naturalmente, ciò non significa che il tutto si limitasse a queste sole città, e infatti spesso sono giunte alla ribalta formazioni extra-cittadine (se non proprio estere) che seguivano lo stesso sentiero dei gruppi principali di una determinata scena, a volte proponendo sbiadite imitazioni degli iniziatori (in genere quando mancava il background musicale e culturale di fondo, per cui il gruppo non può andare al di là del tentativo di emulare i propri beniamini) mentre altre volte offrendo nomi originali e interessanti (che sapevano fare propria la materia prima da cui attingevano, reinterpretandola con classe e gusto). Così, anche il trip hop ebbe la sua "culla" dove attecchì e si consolidò, quella ormai nota Bristol da cui ricavò gli elementi per svilupparsi, fino al punto in cui i giornalisti coniarono il termine "Bristol sound" per definire il profondo legame che c'era fra il genere e la città inglese; e così anche il trip hop ebbe i suoi nomi al di fuori di Bristol.

Gli Archive sono uno di essi: la formazione londinese, formata nel 1994 da Darius Keeler e Danny Griffiths dalle ceneri del gruppo breakbeat Genaside II, propone una musica personale e creativa, e possono essere tranquillamente inseriti nella seconda categoria dei due casi prima menzionati. Il loro debutto è Londinium, uscito nel 1996: un pregevole crogiolo di suoni dove principalmente hip hop soffuso, stratificazioni ambient/chillout, tinte dark, inserti d'archi da musica da camera e piccoli spruzzi di psichedelia si incontrano, narrando la quiete notturna che discende sulla città, nascondendo la follia del caos quotidiano ma al contempo riflettendo l'inquietudine dei cuori delle persone. Una vera testimonianza delle sensazioni più intime dell'ambiente urbano londinese, che intona il canto inconscio che aleggia nell'atmosfera della città in una dolce e dolorosa insieme visione dell'isolamento nella società moderna.
In evidenzia è la splendida voce di Roya Arab. Le sue linee vocali, a tratti molto intimiste, rimangono costantemente tenui e vellutate: una voce limpidissima e di gran charme. La formazione di Keeler e Griffiths stilisticamente imbocca un sentiero personale, che si distacca dal nucleo bristoliano, imbracciando tonalità più morbide e autunnali in cui amalgamare esplorazioni sentimentali e soffici tappeti armonici su cui costruire le melodie, mentre contemporaneamente inserti d'archi costruiscono un mood rilassato e rilassante. Il tutto con arrangiamenti ricercati, avvolgenti, rifiniti e dalla cura certosina negli stessi.
Ma Londinium è significativo soprattutto alla luce della crescente popolarizzazion del trip hop, in questi anni divenuto un trend, data la sua caratterizzazione particolarmente ricercata nei contorni ai motivi portanti delle canzoni, più variegata, più meditata, soprattutto meno legata a motivetto e ritornello e con giochi sonori alle volte quasi sperimentali.

Atmosfere malinconiche ma dolci, morbidi, permeano ciascuna canzone, il tessuto sonoro è soffuso e notturno, tappeti di tastiere lo riempiono con leggerezza mentre il resto della strumentazione impreziosisce il disco con giochi di melodie ed inserti interessanti, dal violino su battito elastico e contorno di elettronica a la primi Massive Attack di Old Artist ai suggestivi tappeti di tastiera della celestiale Beautiful World.
I riferimenti all'hip hop sono perfettamente amalgamati nel disco, denso e compatto in ogni suo elemento; alle volte sono maggiormente in risalto come negli interventi rappati di Rosko Jones, come ad esempio nella noir So Few Words o nell'eterea SkyScraper, ma rimangono sempre calibrati adeguatamente nell'intessitura generale assieme ai tappeti elettonici, alle sezioni d'archi e all'attitudine più atmosferica e da chillout: tutti elementi inseriti ad hoc in modo da accompagnare il cuore melodico del disco arricchendolo e conferendogli ancora più spessore.
Una volta approfondito l'ascolto appaiono ancora più chiare la classe del gruppo nei contrappunti sonori, l'avvolgente armonizzazione di sfondo profusa nel songwriting e le differenze con i "progenitori" di Bristol (in particolare i ben più acidi ed inquietanti Portishead, ai quali in un primo momento i londinesi vennero erroneamente accostati per via del fatto che la prima voce in entrambi i casi fosse una donna... poi ci si accorse che la Arab è un tantinello più eterea e meno dolente e tagliente della Gibbons e che gli Archive, inoltre, non incontrano mai certe atmosfere angoscianti e raggelanti che in diversi episodi della formazione di Bristol entravano invece in primo piano, al punto da rendere trascurabile la comune presenza di una cantante al di là della differente interpretazione vocale).
Si gustano anche miscele di tonalità retrò e altre più moderne come nella cupa Headspace, mentre la strumentale Organ Song, focalizzata sui suoi archi e sul dialogo fra sonorità elettroniche e strumenti classici, proietta in uno scenario sofferente e malinconico, e rimangono impressi sicuramente i crescendo emozionali della titletrack Londinium.
Dall'alienante Man-Made all'inizialmene inqiuetante, poi densa ed evocativa Nothing Else, non c'è un solo calo (tranne forse gli effetti ripetitivi di Headspace), tutto scorre con continuità perfetta, un viaggio da ripetere più e più volte una volta concluso.

La musica degli Archive si oppone al caos e alla confusione degli aspetti più superficiali delle metropoli con tredici perle raffinate che indagano i sentimenti, le angosce, le speranze e le emozioni delle persone. Il contrasto fra il caos mondano di Londra e la quiete del disco ricorda a sua volta da un certo punto di vista Hex dei concittadini Bark Psychosis: anche il loro rock dilatato ed atmosferico propone una soluzione soffice e meditativa, un'introspezione in un caleidoscopio di sonorità soffuse ed evocative in opposizione alla caoticità quotidiana. Con le dovute proporzioni, ci si potrebbe ricollegare leggermente aggiungendo anche una piccola attitudine strumentale che prevale sulla forma canzone canonica.

Londinium è in ogni caso un capolavoro perduto da riscoprire e assaporare nota per nota, sempre più in profondità, in modo da catturarne ogni sua più piccola sfaccettatura.

Dopo quest'album gli Archive, a causa di dissidi interni, si sciolsero temporaneamente, per poi ricomporsi nel 1997 con una differente line-up e nuovi intenti musicali, parecchio diversi.

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