- Vincent Cavanagh - voce, chitarra
- Daniel Cavanagh - chitarra
- Duncan Patterson - basso
- John Douglas - batteria
1. Sentient (03:00)
2. Angelica (05:50)
3. The Beloved (04:44)
4. Eternity part I (05:35)
5. Eternity part II (03:11)
6. Hope (05:55)
7. Suicide Veil (05:10)
8. Radiance (05:52)
9. Far Away (05:30)
10. Eternity part III (04:43)
11. Cries on the Wind (05:01)
12. Ascension (03:23)
Eternity
Un anno dopo il grande capolavoro intitolato The Silent Enigma, esce nel 1996 un ulteriore perla firmata Anathema. Dopo il picco toccato dal lavoro dell’anno precedente, di un’intensità emotiva ineguagliabile, la formazione di Liverpool comincia a intraprendere un percorso diverso che lascia già pensare a sonorità più sperimentali, elettroniche. Produce così in questa ottica Eternity. Soltanto il nome inquadra già bene il carattere di tale opera. L’obbiettivo di Cavanagh e soci è quello di spaziare su diverse dimensioni per poter in questo modo regalare ai propri fan ulteriori emozioni dopo la sensazionale prova del loro precedente full-length. Con brani come la stessa The silent Enigma, Alone, A Dying Wish, risultava in effetti inutile andare ad approfondire le preziose sonorità tristi che li avevano resi famosi.
Ma, pur insistendo sull’introspezione, preferiscono giocare su tonalità differenti che rimangono sempre malinconiche, ma che trasportano l’ascoltatore in una dimensione onirica, eterea, grazie anche a un uso di tastiera più massiccio.
L’atmosfera è sempre fondamentale, un’atmosfera però più rilassata, di riflessione comunque. Eternity inizia dunque con una track strumentale Sentient. Effetti di tastiera in sfondo che ricordano il rumore del mare denunciano già il cambiamento avvenuto. Una chitarra dolcemente distorta e note di keyboard tessono un sound unico e isolano l’ascoltatore preparandolo ai brani successivi.
Appena dopo infatti, troviamo già una song destinata a diventare una delle più belle non solo degli Anathema , ma fra tutte quelle che si possono ricondurre ad un Gothic atmosferico. Una canzone densa di ogni emozione malinconia, tristezza, ma anche speranza, in una visione della realtà forse innovativa per il combo inglese. “Obsessions Lament to Freedom”, “And i Still Wonder…”.
Rimangono sempre grandi cantori di esperienze e sensazioni umane e così proprio in questa track delineano il sentimento di incertezza e ossessivo desiderio che tormentano un uomo innamorato. A un testo di tale intensità vengono abbinati riff di pari livello, molto incisivi.
I successivi brani approfondiscono il nuovo cammino intrapreso e chiarificano subito la grande varietà di moduli espressivi che ora gli Anathema hanno a disposizione. Possono permettersi di variare pur rimanendo ancora ancorati a vecchi timbri sonori.
“My silent cries”, “Still I dream”. The Beloved a questo proposito evidenzia nell’intro e verso la metà della sua durata ancora una netta predisposizione a certi canoni più introspettivi e segnati da una sorta di presagio negativo. La stessa sensazione che si ripete poi in Eternity part I che espone ancor di più un senso di struggimento interiore. Parte con un riff energico, ma lascia subito dopo spazio a un basso esaltante e a un arpeggio molto elegante di chitarra. La voce di Vincent ormai come si può ascoltare anche nella tracks successive perde il growl che invece lo aveva molto caratterizzato a partire dal primo full-length, Serenades, in song tipo Sleepless. Una voce in clean che tuttavia è sempre carica di energia e drammaticità. Proseguendo si arriva alla seconda parte della title-track che rimane su tonalità basse, metafisiche. Sono poi ampiamente illuminanti le uniche tre parole del testo, ripetute da voce appena sussurrata femminile, “Destiny, Infinity, Eternity”.
E’ da apprezzare anche Hope, sesta traccia, che lascia nuovamente spazio a sonorità elettroniche. Con Suicide Veil e Radiance poi si ritorna alle struggenti songs dei vecchi Anathema, con un testo denso di disperazione e un insieme strumentale di altrettanta tristezza. Discorso a parte per la nona track dell’album, Far Away, un’altra prova di come il modo di fare musica del gruppo inglese sia molto efficace. Un desiderio di fuggire dal mondo, “I envy the dead”, che riporta direttamente ad Alone. L’ultimo capitolo della title-track si presenta sotto tutti i punti di vista la migliore e soprattutto la più intensa dal punto di vista lirico, ma soprattutto musicale. L’insieme strumentale è come non mai efficace, puntuale. Crea insomma un insieme perfetto con cambiamenti di tempo, parti di batteria esaltanti che passa da momenti più rilassati ad altri più coinvolgenti ed energici.
Come se non bastasse a seguire si ha Cries on the Wind, brano magari meno conosciuto, ma che invece emerge fra tanti per la carica che riesce a trasmettere, pur rimanendo sempre malinconica. D’altra parte questa è la caratteristica del vocal e di tutto il sound che gli Anathema hanno composto e che comporranno. Dopo tre minuti circa un bellissimo passaggio di chitarra impreziosisce all’inverosimile la song e ne alza nettamente il livello emotivo. Si chiude poi con la dodicesima track, Ascension, un’altra strumentale che va a coronare il terzo album della formazione di Liverpool.
Dopo questa analisi delle singole parti di questo lavoro, si può ben comprendere come Eternity risulti fondamentale nella carriera degli Anathema. Il cambiamento del modo di intendere la musica è chiaro, anche se rimangono in più circostanze ancora legati alle loro vecchie sonorità. Nonostante ciò è da considerarsi come l’inizio del cammino che diventerà molto più esplicito con Alternative 4. Questo full-lenght diventa quindi un’elegante fusione del doom, vecchio stile Anathema, con la fantasia della sperimentazione, che è già ben evidente. Una svariata raffinatezza che conferma ulteriormente a livello mondiale Cavanagh e compagni.