- Duane Allman - Chitarra solista, Chitarra Slide
- Gregg Allman - Voce, Organo, Piano
- Dickey Betts - Chitarra, Voce
- Berry Oakley - Basso
- Jai Johanny Johanson - Batteria, Conga, Timbales
- Butch Trucks - Batteria, Timpani
1. Statesboro Blues (4:17)
2. Done Somebody Wrong (4:33)
3. Storm Monday (8:47)
4. You Don't Love Me (19:16)
5. Hot 'Lanta (5:19)
6. In Memory Of Elizabeth Reed (13:04)
7. Whipping Post (23:03)
[Nota: la tracklist qui riportata è quella dell’originale doppio-LP; alcune riedizioni, quale ad esempio “The Fillmore Concerts” o “At Fillmore East Deluxe” presentano una track list diversa, con svariati altri brani del concerto]
At Fillmore East
Il 12 e 13 Marzo del 1971, al Fillmore East di New York, il Rock veniva marchiato a fuoco dalla registrazione di uno dei live album più strepitosi che la storia della musica recente ricordi. Protagonista sul palco era un sestetto di Macon, Georgia, la Allman Brothers Band, che iniziava a percorrere in quel momento la parte più alta e sfolgorante della propria parabola artistica; provenienti da due album di livello discreto (l’omonimo, 1969) o buono (“Idlewild South”, 1970) il gruppo americano arrivava con questo “At Fillmore East” a livelli di inavvicinabile grandiosità artistica, in futuro sfiorati solo con i successivi “Eat a Peach” (1972) e “Brothers And Sisters” (1973).
Uno dei più grandi live-albums degli anni ’70, “At Fillmore East” fu registrato dalla formazione ‘storica’ della ABB, all’epoca guidata dai due fratelli Allman: Gregg alla voce e all’organo e Duane alla chitarra; gli altri ‘mostri’ del complesso erano il secondo chitarrista Dickey Betts, il bassista Berry Oakley e i due batteristi, Jay Johanson e Butch Trucks.
Gli Allman del 1971 arrivavano da due dischi interessanti, ma che non avevano riscosso particolare successo, cosa dovuta per la maggior parte al fatto che la band, in studio, rendeva solo parzialmente la grande carica e la superba esplosività che invece scaturivano dai loro spettacoli dal vivo. Con questo live, la Capricorn Records trovò una gallina dalle uova d’oro, capace di mostrare la band nel suo ambiente naturale, il palcoscenico, ambiente nel quale i sei artisti sfoderavano tutto il proprio gusto e il proprio bagaglio tecnico, lasciandosi spesso andare a jam session interminabili o succulente improvvisazioni su grandi classici del Blues; a graziare questa registrazione, in particolare, è la straordinaria intesa fra i musicisti, capaci di dialogare fra loro con un’abilità superba e di regalare quindi all’ascoltatore un’esperienza intensa e ricca, come dovrebbe essere di norma per tutti gli spettacoli dal vivo.
A brillare sopra a tutto il resto è la strepitosa prestazione di Duane Allman, vero ‘gioiello’ del gruppo: è lui a catturare momenti magici con la sua slide guitar, è lui a prodursi in chilometriche parti soliste, è lui a incorporare il suono più vivo e bruciante del Rock sudista nella sua sei-corde, è lui ad infiammare una già bollente “Hot’Lanta” con i suoi solos melodici e coinvolgenti. L’altro chitarrista è il talentuoso Dickey Betts, e il fatto che non sfiguri assolutamente di fianco a una leggenda come Duane è sufficiente a decantarne le lodi: è inoltre lui a firmare la più bella canzone del lotto, “In Memory of Elizabeth Reed”, estratta dal disco precedente. Immancabile complemento ai suoni delle due chitarre è l’organo di Gregg Allman, ideale sottofondo per le evoluzioni dei due fenomeni solisti e per le armonie vocali dello stesso Gregg, a metà strada fra un toccante e sentito stile Blues e un approccio più accostabile al Rock melodico. Il mai troppo rimpianto Berry Oakley fa invece da collante fra le anime soliste del gruppo e le ritmiche: è lui a dare la spinta al gruppo sullo stage, con le sue rincorse alle due chitarre, i suoi momenti solistici pieni di corpo e vigore, i suoi potenti patterns che si alternano a quelli delle percussioni, dando maggiore vita e groove ai blues della Allman Brothers Band. E, last but not least, ci sono i due batteristi e percussionisti, Butch Trucks e Jai “Johanny” Johanson, autori di una performance superlativa, un duo capace di stupire grazie a dinamiche inusuali e ricercate, e capace di appassionare grazie a piccoli tocchi di classe e ad assoli vari e appassionanti.
La prima metà dell’album trascorre nel segno del grande Blues, con classici del passato che ritornano ai grandi fasti cui erano abituati grazie all’interpretazione del sestetto della Georgia, tanto che finiranno spesso associati direttamente al nome della Allman Brothers Band: è questo il caso dell’opener “Statesboro Blues”, originariamente scritta da “Blind” Willie McTell, ma divenuta nell’immaginario popolare un classico della ABB grazie soprattutto all’infuocata versione presente su questo disco.
E’ Duane invece a guidare la ritmata “Done Somebody Wrong”, prima che si inizi a dare davvero spettacolo con la cover di “Stormy Monday” del seminale bluesman T-Bone Walker, dolcemente soffusa e con la voce di Gregg sugli scudi; completa questa metà iniziale del disco l’interminabile “You Don’t Love Me”, che si allunga fino ai venti minuti di durata, e che presenta uno spaventoso assolo di Duane nel mezzo.
Ma quasi a dire che fin qui s’è solamente giocato, arriva la seconda parte di “At Fillmore East” a mostrare ciò di cui la band è davvero capace: ai Blues che abbiamo apprezzato finora si succedono i brani originali della band, composizioni ricchissime di finezze Jazz, grinta Hard Rock e passione Blues. La prima di queste è la strumentale “Hot‘Lanta”, vera e propria dimostrazione di superiorità e maestria, grintosa ed energetica: esperti e impeccabili, tutti i membri della band si slanciano in parti soliste da urlo.
In sesta posizione troviamo un’altra strumentale, ed è una delle più belle del Rock: una bellezza pura, perfetta, mozzafiato, quella di “In Memory of Elizabeth Reed”, un brano che si trasforma molteplici volte, assumendo gli sfumati contorni del capolavoro. E’ Dickey Betts ad aprire, con la sua chitarra resa fresca ed onirica dagli effetti e dai giochi di volume: poco dopo le due chitarre dipingeranno il tema principale con eccelsa bravura (tanto che alcuni numeri da circo dei batteristi in sottofondo passano quasi inascoltati); il tempo di iniziare a sognare e viene introdotto all’unisono un nuovo azzeccatissimo motivo, poco dopo spazzato via dal primo assolo, quello di Betts, un crescendo terribilmente emozionante che porta alla sezione solista dell’organo di Gregg, settantiano e affascinante nei suoi disegni variopinti. E’ ora il turno di Duane, e, signori e signore, qui mi mancano le parole. Un turbinio di note e melodie, un volo tra paradiso ed inferno che trabocca gusto ed ispirazione, una tecnica cristallina accostata ad un feeling sincero e passionale, momenti di pura esaltazione Rock alternati a catartici intermezzi riflessivi. Finito l’assolo di Duane si torna, dopo un brevissimo scambio di battute fra le percussioni, ai temi di inizio brano, e la band, oramai in piena estasi, conclude in un tripudio sublime, tra rallentamenti e scottanti unisoni: è la versione definitiva, la più ispirata, di una delle strumentali che hanno fatto grande il Rock.
Pensate sia abbastanza? Neanche per sogno, mancano ancora i ventitré minuti di “Whipping Post”, un altro dei grandi cavalli di battaglia del gruppo (estratto dal primo disco), un ciclone aperto dal celebre giro di basso di Berry Oakley, in cui le chitarre di Duane e Dickey fanno a gara di drammaticità con la sofferta voce di Gregg (da lacrime il “Good Lord, I feel like I’m dyin’...” in chiusura di brano): le chitarre cantano, piangono, si disperano, ribollono d’ira, dilettandosi in solos al limite dell’umano, ed esaltate da una ritmica fenomenale e da un accompagnamento costante dell’organo. Li ho trascurati nella descrizione del brano precedente, ma in “Whipping Post”, come in “In Memory...”, Oakley, Trucks e Johanson si producono in ritmiche d’alta scuola, in accompagnamenti pieni d’energia fino all’inverosimile, e in accorgimenti tecnici di strepitosa dinamicità o delicatezza: riescono insomma in quello che molte altre sezioni ritmiche hanno mancato, cioè nell’essere capaci di approfondire in una ‘terza dimensione’ il suono della band.
Immancabile per qualsiasi appassionato del Rock anni ’70, caposaldo del Southern Rock e, più in generale, capolavoro del Rock, “At Fillmore East” è un documento imprescindibile per gli appassionati della migliore musica di quel decennio, così prodigo di grandi talenti musicali. Oltre ad essere uno dei live-album più belli del settore, questo disco è anche il più rappresentativo di una delle più grandi Rock band di sempre e di uno dei più dotati chitarristi che la musica recente possa vantare. Pochi mesi dopo, proprio gli Allman suoneranno uno degli ultimi concerti del Fillmore East prima della sua chiusura, in una notte interminabile fatta di jam-sessions continue in cui i musicisti persero la cognizione del tempo; ad Ottobre dello stesso anno, invece, Duane morirà in un incidente stradale, lasciando questo live-album come proprio testamento musicale: non v’è modo migliore di onorare uno dei più grandi esponenti della musica che amiamo, che ascoltare come lui la interpretava.
Anche per questo, ma non solo per questo, un disco con la C maiuscola: quella di Classico e di Capolavoro.