- Philip Labonte – Vocals
- Mike Martin – Guitar
- Oli Herbert – Guitar
- Jeanne Sagan – Bass
- Jason Costa – Drums
1. "Before The Damned" - 2:53
2. "Two Weeks" - 4:17
3. "Undone" - 3:12
4. "Forever In Your Hands" - 3:36
5. "Chiron" - 4:25
6. "Days Without" - 3:11
7. "A Song For The Hopeless" - 4:15
8. "Do Not Obey" - 3:12
9. "Relinquish" - 2:51
10. "Overcome" - 2:38
11. "Believe In Nothing" (Nevermore cover) - 4:23
Overcome
Non appena la grande marea del metal lambisce le coste della dimensione mainstream, subito si levano gridolini isterici di sciocca protesta e, quel che è peggio, assurdo biasimo: è toccato al nu-metal qualche tempo fa, tocca al metalcore oggi. Fortunatamente, coloro i quali si sentono offesi da un’evoluzione artistica che, a quanto parrebbe, viola un aberrante concetto elitario della musica metal, sono soltanto una scarsa minoranza di ipocriti puristi, ma tant’è: molto spesso capita di ascoltare arringhe pressoché deliranti contro un fenomeno assolutamente legittimo, spontaneo o pilotato che sia, e tutt’altro che dannoso. L’aggettivo in assoluto più utilizzato come estrema sintesi di questa incomprensibile condanna è il termine “commerciale”, parola letteralmente scevra da opinabili connotazioni moraliste ma che possiede il tutt’altro che trascurabile difetto di non discriminare affatto sull’elemento che più deve stare a cuore a chi apprezza la musica: la qualità.
Proprio questa accusa di commercialità non risparmierà certamente l’ultimo lavoro degli All That Remains, egregi paladini del metalcore made in USA tornati finalmente alla ribalta internazionale dopo il precedente superlativo The fall of ideals: Overcome, infatti, nonostante esalti tutte le principali caratteristiche del metalcore, dalle poderose vocalità in scream ai più imprevedibili breakdown dietro le pelli, non nasconde certo una decisa virata verso una più spiccata componente melodica, la quale, al di là di una prestazione vocale non sempre impeccabile da parte di Philip Labonte ed una scelta di mixaggio che ancor meno la valorizza, saprà certamente soddisfare anche i gusti meno affilati di chi per la prima volta si affaccia al mondo del core, o quanti, prima d’ora, l’avevano sempre mal digerito. “Ovunque la si tiri, la coperta è sempre troppo corta”: come dice il proverbio, l’allargamento del bacino di ascoltatori verso le più affollabili lande dell’easy-listening implicherà la conseguente perdita di una buona fetta di quei sostenitori maggiormente inclini ad un sound più violento e brutale, che, se non rinnega, certo non vede di buon occhio la melodia. Niente di più sbagliato: mai come in questo caso, infatti, i poderosi incisi in clean, le linee melodiche più lineari e “aperte”, persino la notevole riduzione dei cambi di tempo (novità positiva solo in parte: alle volte rischia infatti di provocare una certa prevedibilità d’ascolto) si miscelano perfettamente con gli elementi più solidi e graffianti del genere, risultando non soltanto efficaci ma addirittura essenziali nella proposta musicale del combo originario del Massachussets.
Sintesi perfetta dell’ultimo lavoro degli All That Remains, nonché palma d’oro di miglior brano dell’intero album, è la traccia numero 2: Two weeks, nonostante una struttura tendenzialmente aggressiva e ruvida come doverosamente richiesto dal genere d’appartenenza, esplode in tutta la sua prepotenza emotiva in un chorus veramente toccante nel quale il perfetto clean del vocalist tocca, in un trascinante crescendo di velocità e intensità, corde di inedita e profonda sensibilità. La scelta di pubblicarlo come secondo singolo è a tutti gli effetti azzeccata e perfettamente condivisibile: data la sua preponderante svolta melodica, lanciarlo come 1° estratto avrebbe molto probabilmente stupito in negativo gran parte della base di fans, abituati alle sonorità più “grezze” e pesanti dei precedenti album; pubblicare Two weeks a seguito di Chiron, un pezzo di assoluta pregevolezza qualitativa ma decisamente più tradizionale, non soltanto ha contribuito ad evitare i precedenti rischi di collettiva delusione, ma ha certamente colpito nel segno anche quanti magari non li conoscevano in precedenza e hanno trovato in un sound molto più dolce e appetibile buoni motivi per avvicinarsi a loro in particolare, al metal(core) in generale. In generale, la qualità di Overcome è decisamente buona e si mette in evidenza sin dai primi istanti: se nel caso di The fall of ideals il ruolo di opener era stato affidato a This calling, il pezzo indubbiamente più trascinante di tutto l’LP, in questo caso il suo “fratello gemello” Two weeks viene relegato in seconda posizione per lasciare spazio in apertura alla penetrante fucilata di Before the damned (esattamente speculare proprio all’intro di This calling), ouverture assolutamente convincente la cui brevità temporale (poco meno di 3 minuti di durata) non ne sminuisce affatto la lampante efficacia.
Dopo il gioiello di traccia 2 (nonostante il mixaggio non riesca a valorizzare appieno le sovrapposizioni vocali), l’album affronta una sequenza di brani estremamente potenti e allo stesso tempo immediati: le furenti corse di Undone, che riprendono in parte le dinamiche ritmiche di Before the damned, trovano il loro apice in un assolo sintetico ma molto ben eseguito, nonché, soprattutto, perfettamente inserito nel contesto strutturale del pezzo; la romantica cavalcata di Forever in your hands, brano assolutamente sorprendente data la (doverosa) moderazione delle parti vocali in scream, affascina e travolge sin dalle prime battute, esplodendo in un accordo, verso la metà del tempo, che rasenta davvero la perfezione stilistica; le poderose grida di Chiron, di cui si è già sottolineata l’indiscutibile pregevolezza, presentano almeno 4 cambi di tempo e 3 diverse modalità di canto che, nonostante la notevole durata (4 minuti e mezzo sono parecchi, dato il genere musicale cui fanno riferimento), non annoiano affatto (da applausi il lungo intermezzo strumentale a metà brano, poco più di 90 secondi durante i quali, ad un evocativo preludio acustico, fa seguito un fulminante assolo elettrico); le suggestive armonie di A song for the hopeless, meravigliosamente sostenute da deliziosi arpeggi di chitarra acustica, rappresentano una sintesi perfetta del metalcore moderno (in questa circostanza, a onor del vero, può risultare del tutto appropriato il termine swedecore), nel quale la furia dello scream e la potenza della doppia cassa non intendono rinunciare al gusto ineguagliabile degli assoli di chitarra elettrica e degli incisi in clean.
Naturale che, dopo una simile parata di stelle, l’album presenti alcune pur sopportabili cadute di tono: Days without, brano totalmente privo di mordente che, al di là di una buona orecchiabilità, non offre veramente alcun apprezzabile spunto; Relinquish, che si fa benvolere per la disarmante potenza vocale (totalmente assenti le parti vocali in clean) e strumentale ma evita a malapena una stanca e diffusa pesantezza; Overcome, titletrack assolutamente noiosa, fastidiosa, inutile, sbagliata. In soccorso dell’ascoltatore anche più volenteroso giunge provvidenzialmente la signora durata: i pezzi migliori infatti, forse non proprio casualmente, superano ampiamente i 4 minuti, mentre i peggiori (esattamente quelli appena citati) non vanno oltre i 3 minuti; unica eccezione, ma solamente di una decina di secondi, Days without, che delle 3 è indubbiamente la meglio digeribile.
Poco male, comunque, giacché Overcome rimane un ottimo lavoro di, passatemi la definizione, melodic metalcore: chi ancora non conosce gli All that remains, infatti, certamente non deve aspettarsi da loro né la più tradizionale (e spesso monotona) potenza dei Killswitch Engage né tantomeno l’efferata “cattiveria” degli As I lay dying, ma un metalcore dinamico, ottimamente strutturato ed estremamente pulito, con sonorità brillanti e vocalità intense ma ugualmente moderne (drammaticamente palese il confronto con Howard Jones, vocalist dei Killswitch Engage), che fa della melodia un elemento assolutamente imprescindibile e, del tutto in positivo, caratterizzante. Per quanti ancora non li conoscessero, Overcome rappresenta invece un’ottima opportunità di avvicinarsi al caratteristico sound del metalcore senza addentrarsi immediatamente nei territori decisamente più acuminati delle band sopra citate, non significando con ciò che quest’ultime siano qualitativamente superiori in nulla agli All that remains, anzi: questi ultimi hanno lo straordinario merito di essere riusciti a riproporre un full length non necessariamente derivativo ma valido quasi quanto il suo predecessore e che, nei migliori momenti (a titolo esemplificativo si confrontino This calling e Two weeks), lo supera in imprevedibilità, emotività e trasporto. Sarà banale ripeterlo, ma confermarsi è sempre l’impresa più difficile.