-Cam Pipes - voce clean
-Jamie Hooper - voce HC
-Justin Hagberg - chitarra
-Shane Clark - chitarra
-Nick Cates - basso
-Alexei Rodriguez - batteria
1. Through the Horned Gate (02:07)
2. Night Marauders (04:15)
3. The Goatrider's Horde (04:13)
4. Trial of Champions (03:39)
5. God of the Cold White Silence (04:24)
6. Forest King (05:16)
7. Demon's Blade (04:10)
8. The Great Hall of Feasting (03:53)
9. Infinite Legions (04:55)
10. Assassins of the Light (03:)
11. Black Spire (05:23)
12. The Hydra's Teeth (04:49)
13. Rejoice in the Fires of Man's Demise (01:32)
Fire up the Blades
Giungono al loro terzo full-lenght i 3 Inches of Blood, una delle bands più esaltate dagli amanti dell'Heavy Metal degli ultimi 5 anni. Il sestetto canadese si è distinto infatti negli ultimi tempi, dominati da Nu-Metal e Metalcore, proponendosi come protettore del Metal vecchio stampo, ed ispirandosi quindi nel proprio stile ai gruppi più classici, quali Iron Maiden, Judas Priest, Manowar, Helloween, ecc. Inizialmente ritenuti dai più essere una “joke band”, a causa dei testi ridicolmente inneggianti alla gloria dell'Heavy Metal e ad infantili imprese epiche, i sei ragazzi di Vancouver fondano il loro stile su una forte impronta NWOBHM, arricchita da spunti thrasheggianti nelle sezioni ritmiche. Fin qui, niente di particolarmente originale: la peculiarità della band, infatti, non sta nella sezione strumentale, ma bensì in quella vocale, la quale possiede l'inusuale caratteristica di avvalersi di due cantanti, uno clean, Cam Pipes, e uno Hardcore scream, Jamie Hooper. Tale caratteristica ha, fin dalla nascita della band, diviso la critica tra chi la considera una trovata originale, e chi invece la ritiene il punto debole del gruppo. In realtà, c'è del vero in entrambe le correnti di pensiero: l'idea dei due vocalists, uno clean e uno harsh sarebbe di per se originale, se almeno uno dei due fosse in grado di coprire un discreto range di note. Questo purtroppo nel caso dei 3 Inches of Blood non avviene: le due voci risultano infatti insopportabili ad un orecchio non allenato, e quantomeno fastidiose all'udito dopo una serie di ascolti.Immaginate, gli acuti più alti di Rob Halford, protratti per tutta la durata di una canzone: questa è la sezione clean dei vocalizzi dei 3 Inches of Blood, irritante per l'udito come il gesso sulla lavagna.I vocals hardcore non sono certo più piacevoli da ascoltare, essendo caratterizzati da un'atonalità tale da renderle quasi superflue.Detto questo, e tenendo presente che i vocalizzi per l'intera durata dell'album non varieranno di un semitono, quanto segue costituisce un'analisi prettamente strumentale del disco.
Dal punto di vista strumentale la band, pur non brillando per originalità, soprattutto nella sezione ritmica, riesce a trovare soluzioni orecchiabili e discretamente tecniche, in particolare ad opera dei due axemen Justin Hagberg e Shane Clark i quali macinano riffs ed a soli che non hanno niente da invidiare dalle band a cui si ispirano. Altra qualità tutt'altro che disprezzabile di Fire up the Blades è la varietà che caratterizza i pezzi che lo compongono: questi infatti abbracciano una discreta gamma di sfumature dell'Heavy Metal. Abbiamo quindi pezzi in cui domina la componente Speed, come Night Marauders e The Goatrider's Horde, quest'ultima dotata peraltro di un riff molto catchy nel ritornello; pezzi più influenzati dalla NWOBHM come Forest King e Assassins of the Light e persino elementi Thrash, ad esempio in Deamon's Blade, e Glam, in The Great Hall of Feasting.Non mancano inoltre riffs e a soli memorabili: Trials of Champions, ad esempio, nella sua seconda metà è un susseguirsi di pregevolissimi arpeggi e a soli, mentre meritano una speciale menzione il melodicissimo riff centrale di God of the Cold White Silence e le due tracce strumentali Through the Horned Gate e Rejoice In the Fire of Man's Demise le quali, poste rispettivamente come intro e outro del disco, costituiscono forse i due momenti più evocativi del platter (anche grazie all'assenza delle parti vocali): la prima dal tono epico e marziale, reso dalla batteria incalzante, la seconda resa leggermente più malinconica dagli inserti di pianoforte.
Fire up the Blades, disco che tralaltro vede Joy Jordison al suo debutto come produttore, è insomma un album di buona musica strumentale, troppo spesso sovrastata da un cantato irritante e fuori luogo. Un platter che avrebbe potuto riportare indietro di vent'anni gli amanti dell'Heavy Metal, e che invece potrà essere apprezzato appieno solo da quei pochi che riusciranno a sopportare il fastidio causato dal falsetto sessualmente ambiguo di Cam Pipes e dallo screaming agonizzante di Jamie Hooper.