Nicky Moore - voce
Manny Charlton - chitarra
Mikael Fassberg - chitarra
Fredrik Borg - chitarra
Carl Michael Hildesjo - batteria
Andreas Grufstedt - basso
1. Queen Bitch
2. Catwalk
3. What You're Doing
4. Picture
5. Family
6. Boneman
7. Crutch
8. Gone
9. Play Dirty
10. Size Doesn't Matter
11. Hidden Bonus Track
Game Over
Per chi ha assaporato gli albori della NWOBHM dell’Hard Rock di fine ’70/inizio ’80, il nome di Nicky Moore, ex voce dei Samnson (esatto la stessa band dove militò Dickinson e che valse a Bruce il nick "Air Raid Siren") e di Manny Charlton, chitarrista dei Nazareth, suona estremamente famigliare e fa sperare che questa loro nuova creatura, i From Behind, per due sesti anglo-americana e per la rimanenza svedese, possa far assaporare loro dell’ottimo e fresco Hard ‘n’ Heavy di qualità. Sfortunatamente, ed è meglio chiarirlo subito, Game Over, opera prima del six-piece in questione, è un disco medio, molto medio…anche troppo.
Dall’opener Queen Bitch, passando per Picture, Boneman e Play Dirty ci s’imbatte in brani di hard Rock estremamente canonici, dove a farla da padrone sono le chitarre del già citato Charlton, supportato dalle asce svedesi di Mikael Fässberg e Fredrik Borg (tre chitarre che, a dire il vero, non si notano), e la voce di Moore, il quale appare, forse, quello più in forma di tutti, con una performance dignitosa e coinvolgente di linee vocali altrimenti troppo sature di cliché. Non si può dire che sia suonato male questo platter, ma neppure benissimo, con assenza di tiro nell’esecuzione ed una produzione troppo datata e scarica (forse un tentativo di vintage sound?). La sessione ritmica svolge un compito di amministrazione più normale di quella di un impiegato delle poste, ma quello che delude sono i pezzi ed il songwriting: l’hard rock ha regole precise, giusto così, ma queste regole devono stuzzicare classe e fantasia, specie in musicisti di enorme esperienza come i suddetti. Qui i pezzi potrebbero essere buoni per una band di esordienti, ma sono mediocri per compositori di tale lignaggio.
Unico pezzo che si solleva dalla mediocrità totale la conclusiva (escludendo la hidden-track acustica numero undici) Size Doesn’t Matter, dove appare maggiormente la classe compositiva che ci si dovrebbe aspettare, impreziosita dal sempre encomiabile lavoro di Moore, l’unico che meriterebbe la sufficienza. Per il resto solo track scontate di Hard Rock che sembra essere una specie di revival, con riffing, soli e tempi di batteria totalmente scontati e quasi stereotipati, come alcuni passaggi vocali. Non ci siamo, non va bene: l’Hard Rock è fresca energia e classe musicale, una musica ‘timeless’, che non vuole e non necessità di autocelebrazioni nostalgiche, in quanto non è morto...anche se dischi come questo, soprattutto se provengono da alcuni dei suoi più importanti esponenti, sono un brutto colpo alla sua salute. Un disco evitabile.