- Tom Araya - basso e voce
- Jeff Hanneman - chitarre
- Kerry King - chitarre
- Dave Lombardo - batteria e percussioni
1. Angel of Death (4.51)
2. Pieces by Pieces (2.03)
3. Necrophobic (1.40)
4. Altar of Sacrifice (2.50)
5. Jesus Saves (2.55)
6. Criminally Insane (2.23)
7. Reborn (2.12)
8. Epidemic (2.23)
9. Postmortem (2.45)
10. Raining Blood (4.58)
Reign in Blood
Anche se ancora non hanno conquistato una fama mainstream e nessuno dei loro album è ancora entrato in alcuna classifica, la statura degli Slayer nel 1985 è ben lontana dall'essere quella di un gruppo emergente. Con le sue quarantamila copie vendute, Show No Mercy del 1983 è stato l'album di maggior successo della Metal Blade Records, mentre lo splendido Hell Awaits (di fatto, la prima reale pietra miliare degli Slayer, che l'anno precedente aveva ridefinito le possibilità e gli orizzonti del metal estremo) era stato accolto ancora più caldamente dalla critica e dal pubblico metal. Addirittura, i lettori della zine britannica Metal Forces non solo certificano Hell Awaits come miglior album del 1985, ma eleggono gli Slayer come miglior band e live act, e Dave Lombardo come miglior batterista.
Per questi motivi, dopo la pubblicazione del secondo album, il loro manager Brian Slagel ritiene che gli Slayer abbiano le carte in regola per permettersi un salto di qualità in vista della pubblicazione di un terzo full-length. Slagel comincia quindi a mettersi in contatto con varie etichette, in modo da permettere agli Slayer di firmare per una label più prestigiosa della Metal Blade. Tra quelle interessate alla loro musica, spicca inaspettatamente la Def Jam Recordings di Russell Simmons e Rick Rubin, ai tempi una neonata succursale della Columbia Records, e destinata a lasciare il segno come una delle più importanti etichette della storia dell'hip hop. Nel 1985, questa direzione della Def Jam era già chiara: i primi singoli di Beastie Boys e LL Cool J erano stati prodotti proprio da Rubin e Simmon, così come lo storico Radio, uscito proprio quell'anno.
Il terzo disco degli Slayer sarebbe stato quindi la loro prima produzione metal: per questo motivo, Slagel è inizialmente poco propenso ad avvicinarsi a questa etichetta, mentre tutti i membri degli Slayer sono preoccupati alla prospettiva di lasciare la Metal Blade, con cui erano ufficialmente ancora sotto contratto. Tutti tranne Dave Lombardo, che è incuriosito dall'interesse di un'etichetta hip hop per un gruppo thrash metal: tramite la Columbia, riesce a mettersi in contatto con Rick Rubin, che accetta di assistere a un concerto della band. Un successivo incontro diretto tra Slayer e Rubin, infine, sancisce una delle più importanti unioni della storia del rock. A questo punto, manca solo il disco.
Le registrazioni del nuovo lavoro hanno luogo negli studi di Los Angeles, insieme a Rick Rubin e a Andy Wallace, nell'estate del 1986.
Il risultato di queste sessioni si concretizza infine in un album che non sembra partorito dagli stessi Slayer di Hell Awaits né, soprattutto, da quelli di Show No Mercy: Reign in Blood - questo il titolo del terzo full-length del gruppo - si discosta nettamente dal suono presentato nei due capitoli precedenti, così come dal suono che qualsiasi altra band, metal e non, avesse mai esibito prima.
Reign in Blood si discosta notevolmente dalle altre produzioni metal dell'epoca, dal sapore spiccatamente lo-fi e dal riverbero oltretombale, che era stato imposto dai primi classici dei Venom e che gli stessi Slayer avevano adottato sia sui primi due album sia su Haunting the Chapel. Al contrario, la produzione di Reign in Blood è professionalissima: compatta, graffiante, talmente pulita da far impallidire qualsiasi altra registrazione metal del periodo (e non solo). Le chitarre di Kerry King e Jeff Hanneman (il principale autore delle composizioni di Reign in Blood), mai valorizzate da una produzione così massiccia, si intrecciano in linee vorticose e taglienti; Tom Araya appare ora riesumato dall'anfratto infernale da cui la sua voce sembrava provenire su Hell Awaits, ergendosi con potenza sulla musica. La batteria di Dave Lombardo, infine, acquista un rinnovato vigore, che le conferisce un suono secco quasi più assimilabile ai beat hip hop che alle ritmiche thrash metal. Ci sarebbe la tentazione di collegare il cambio di sonorità degli Slayer tra Hell Awaits e Reign in Blood all'intervento di Rubin, più avezzo alle produzioni rap che a quelle di metal estremo; ma a giudicare dalle parole poco lusinghiere di King sul suo lavoro («[Rubin] is a fucking nothing. He'll sit back because he's got better things he wants to do») è più plausibile ritenere che la vera mente in cabina di regia sia quella di Wallace, che nell'ambito hip hop si era occupato precedentemente solo di Raising Hell dei Run-D.M.C..
In ogni caso, la produzione non è l'unico drastico cambio di rotta rispetto a quanto mostrato dagli Slayer nei lavori precedenti. Ormai troncate le ultime ingerenze NWOBHM che ancora erano rimaste nel sound di Hell Awaits (come gli acuti in falsetto con cui Tom Araya omaggiava il canto di Rob Halford), Reign in Blood riduce ai minimi termini gli orpelli nelle strutture e nell'esecuzione, di contro amplificando la malvagità e la ferocia dell'esecuzione.
Gli Slayer sono annoiati dalla lunghezza dei brani e dal rifferama a tutti i costi che andavano di moda tra i gruppi della scena della Bay Area del periodo. Hanneman, in particolare, dirà in proposito: «At that time, we always listened to Metallica and Megadeth to see what they were doing, but one thing about me and Kerry is that we get bored of riffs really quick. We can’t drag the same thing over and over or do the same verses six times in a song. If we do a verse two or three times, we’re already bored with it. So we weren’t trying to make the songs shorter - that’s just what we were into.».
Per questo, il quartetto preferisce un approccio che dell'hardcore dei Black Flag recupera l'essenzialità, la foga e la frenesia. Del metal, gli Slayer mantengono soprattutto l'aura maligna e minacciosa, oltre che l'immaginario orrorifico di Venom e Mercyful Fate (reso ulteriormente esplicito, splatter e sanguinolento dall'influenza della cinematografia horror, di cui tutti i membri degli Slayer sono avidi consumatori). Le strutture e l'esecuzione di ascendenza Judas Priest, invece, vengono compresse e, quindi, accelerate oltremisura. Le parti all'unisono e gli intricati scambi di ruoli tra chitarrista solista e ritmico di scuola Glenn Tipton/K.K. Downing vengono trasfigurati in efferati flussi torrenziali di note incuranti di qualsiasi concetto di armonia e di melodia - quest’ultime, compromesse ulteriormente nella fase solista, resa particolarmente sconclusionata dall'utilizzo sconsiderato della leva del vibrato che spazza via gli ultimi barlumi di coerenza tonale. Secondo le stesse parole di Kerry King: «It’s really funny because for the first couple records I'd make up leads that were appropriate to the riffs that we played. But for Reign in Blood I got lazy and just made up stuff that sometimes didn’t make any sense and I was still turning up on guitar polls as one of the best metal guitarists».
Sotto questa pioggia a cascata di distorsioni brucianti, la batteria di Lombardo sfoga uno stile minimale, velocissimo e chirurgico, visibilmente influenzato dalla leggendaria prestazione di Felix Griffin dei D.R.I. esibita su Dealing With It! (Metal Blade Records, 1985): i suoi serrati skank beat (quelli che, nel gergo assolutamente non tecnico utilizzato tanto dagli ascoltatori quanto dai giornalisti metal, assumeranno successivamente il nome onomatopeico di tupa-tupa), con colpo di rullante in battere e ride (anziché charleston) in levare, sono di fatto la più importante novità apportata alla batteria metal degli anni Ottanta e un passo fondamentale per l'affermazione del blast beat che farà la fortuna di centinaia di gruppi death metal e grindcore. E il suo avveniristico uso della doppia cassa, con cui Lombardo scandisce con precisione metronomica i sedicesimi rendendo il suono della band ulteriormente pieno e aggressivo (elaborando sulle prime intuizioni riguardo le potenzialità del doppio pedale dovute a Philthy Animal Taylor dei Motörhead), pone una pietra di paragone con cui praticamente nessun batterista di metal estremo successivo potrà mai più fare a meno di confrontarsi.
Come naturale conseguenza, i brani si accorciano sensibilmente: da una media di oltre cinque minuti per pezzo in Hell Awaits, si giunge a una misera media di nemmeno tre, tanto che con le sue dieci tracce Reign in Blood non arriva alla mezz'ora di durata. Quando alla fine delle registrazioni si scopre il minutaggio dell'album, sia il gruppo che Wallace rimangono profondamente spiazzati di fronte alla consapevolezza di aver realizzato un lavoro che occupava nella sua interezza un solo lato di una cassetta, e si fa addirittura strada l'ipotesi di scrivere altro materiale per poter confezionare un prodotto più commerciabile. Ma, infine, il nulla osta di Rubin tranquillizza la band («His only reply was that it had ten songs, verses, choruses and leads and that’s what constituted an album. He didn’t have any issue with it.», ricorderà Araya).
Ciò che distingue però Reign in Blood da tutto ciò che sia mai stato registrato prima nel genere è soprattutto una forza espressiva inaudita, e una convinzione tale da trascendere le pose ironiche dei Venom. Se musicalmente Reign in Blood supera gli stereotipi del thrash metal e dell'hardcore punk, giungendo a lidi di oltranzismo sonoro mai immaginati prima nemmeno dagli esponenti del metal più vicini, per tematiche o sonorità, al death metal (Possessed) e al black metal (Bathory), dal punto di vista concettuale c'è un prodigioso salto in avanti rispetto al modo di affrontare la tematica del male. La primaria fonte di ispirazione degli Slayer si trova ora nel lato più disumano dell'uomo: tra gerarchi nazisti, assassini in preda a frenesie omicide, messe nere e sacrifici satanici, esecuzioni medievali, putrescenza e menomazioni sanguinolente, Reign in Blood è un campionario di atrocità che non ha altro scopo se non mostrare, senza mezze misure, gli abissi più abietti dell'essere umano. Forse proprio per questo Reign in Blood suona così terrificante, nonostante gli orrori sondati in ambito metal estremo dal 1986 fino a oggi: non sono vampiri, zombie o demoni i protagonisti della musica degli Slayer, ma semplicemente uomini.
In tutto questo, ovviamente, non c'è mai una presa di coscienza da parte del quartetto. Coerentemente con gli scopi provocatori e con la ricerca dello shock value che hanno caratterizzato un'intera tradizione di musicisti hard & heavy a partire da Alice Cooper in poi, gli Slayer non pensano minimamente a utilizzare queste tematiche come punto di partenza per una riflessione più profonda (al contrario di quello che una certa critica ha cercato di insinuare, forse nel disperato tentativo di dare uno spessore concettuale cui gli Slayer non ambivano minimamente). Anzi, il disco oscilla in maniera ambigua tra denuncia e apologia del male in ogni sua forma, come se gli Slayer fossero gli stessi folli capaci di compiere simili atrocità e che Reign in Blood sia solo la loro personale esibizione degli orrori. Ed è proprio questo ciò che rende gli Slayer non solo estremamente più credibili (perlomeno per quanto concerne l'ascolto di Reign in Blood) di tutti i loro emuli concettuali e musicali, ma anche particolarmente vulnerabili alle accuse di nazismo o satanismo. (Accuse che, inesorabilmente, arriveranno da ogni parte, una volta che gli Slayer avranno conquistato l'attenzione del pubblico mainstream.)
A Reign in Blood sembra bastare solo questa potenza shockante per poter segnare indelebilmente la storia del rock, perché in effetti, delle dieci composizioni di cui consta il disco, sette sono praticamente indistinguibili l'una dall'altra, in uno sgorgare senza tregua di invocazioni a Satana, ecatombi, malattie, morte e decomposizione. Sono brani che confluiscono l'uno nell'altro con naturalezza, spesso senza neanche una netta scissione, sondando di volta in volta con sadica impersonalità la mente e le azioni di criminali, psicopatici, streghe impenitenti condannate al rogo e sacerdoti satanisti, musicandole con le partiture più distorte e agghiaccianti possibili. Tra questi, sono pochi i pezzi che riescono a conservare una propria identità melodica ben definita (Altar of Sacrifice, Criminally Insane, Epidemic).
Nemmeno il canto di Araya offre appigli particolari all'ascoltatore in questo senso: per adattarsi a suoni tanto brutali e a tempi tanto serrati, il timbro della sua voce si fa tagliente e la sua dizione ancora più rapida che su Hell Awaits, spesso lambendo una frequenza di tre/quattro parole per secondo (cfr. Necrophobic, Jesus Saves, Reborn), - il che, naturalmente, conferisce alla musica degli Slayer un carattere ancora più folle e depravato. La sua performance vocale su Reign in Blood è una delle più grandi mai udite nell'intera storia del metal e, come quasi ogni aspetto di questo disco, marchierà a fuoco il genere per tutti i decenni a venire.
Su questo maelstrom sconclusionato di riff di chitarra e skank beat si stagliano quindi i tre indiscussi e indiscutibili capolavori degli Slayer. Il primo, posto ad apertura del full-length come manifesto del gruppo, è Angel of Death, lo storico brano dedicato a Josef Mengele e ai suoi esperimenti ad Auschwitz. Scritto da Hanneman, appassionato di seconda guerra mondiale a tal punto da collezionarne cimeli militari, è una dettagliata ricostruzione di qualsiasi tipo di tortura riservata agli ebrei nel nome del progresso scientifico della Germania nazista. Per le vittime non è mostrato alcun tipo di sentimento di empatia, per il carnefice alcun biasimo: è la sterile cronaca di un genocidio, di cui gli Slayer compongono la colonna sonora con riff violenti e assoli intricati e penetranti, che di questa ecatombe sono l'equivalente musicale. Eppure, è proprio questo il pezzo che più si avvicina a uno standard di brano heavy metal, visto il suo alternarsi regolare di strofe, ritornelli, bridge e soli di chitarra. Anche l'acuto di Araya posto in apertura, che può essere facilmente frainteso per il bending di un'inesistente terza chitarra, non è altro che l'ultimo omaggio alle grandi performance vocali di Rob Halford che l'avevano influenzato fin dagli esordi.
Ma il vero apice di tutta la discografia slayeriana, nonché uno dei momenti più alti che la storia del metal possa vantare, è dato dal duo conclusivo Postmortem/Raining Blood. Sono gli unici altri due brani che sfoggiano figure melodiche di rilievo (anzi, il riff portante di Raining Blood l'ha trasformato in uno dei classici più noti di tutta la musica metal), eppure il tema è perfettamente in linea con gli otto brani precedenti. L'esibizione degli orrori di Reign in Blood termina infatti con il più naturale degli epiloghi: l'agognata morte dell'individuo che, succube del retaggio culturale di secoli di cristianesimo, aspetta solo il momento del trapasso per vivere nuovamente nell'aldilà. Al posto della vita ultraterrena tanto desiderata, però, ad attenderlo è l'Apocalisse, introdotta da disturbanti visioni orrorifiche di cadaveri, scheletri e mareggiate di sangue (cantate da Araya nell'inquietante seconda metà di Postmortem) e quindi annunciata definitivamente dal rombo di un tuono. Satana rovescia le leggi divine, sconfigge Dio e instaura il suo regno, suggellato da un turbinio infernale e assordante di quasi due minuti di feedback, distorsioni, triturazioni batteristiche a oltre 200 battiti per minuto. Alla fine di tutto questo, solo un altro tuono, e quindi il mesto scrosciare di una pioggia cremisi: il Male trionfa.
Di fronte a un lavoro del genere, perfino la Columbia si dissocia dall'album, rifiutandosi di pubblicarlo: la musica è troppo feroce e i concept troppo espliciti, a partire dall'iconico artwork in cui un demone caprino stabilisce il suo regno in un inferno di sangue, popolato da figure deformi e grottesche. Sarà la Geffen Records quindi a incaricarsi della distribuzione di Reign in Blood, che viene rilasciato infine il 7 ottobre 1986. E da allora, il mondo della musica non sarà più lo stesso.
Pubblico, critica e musicisti vengono subito scossi dal terremoto rappresentato da Reign in Blood. Senza nemmeno rilasciare nessun singolo, gli Slayer entrano per la prima volta nella Billboard 200: l'album vende inaspettatamente oltre un milione di copie negli Stati Uniti (secondo Brian Slagel), debuttando al 127esimo posto e assestandosi nelle settimane successive al 94esimo (nel 1992, verrà certificato disco d'oro negli Stati Uniti). In Inghilterra, dove esce qualche mese più tardi tramite la London Records, accarezza perfino la top 40.
Nel frattempo, riviste specializzate o meno (da Circus, la prima a parlare di Reign in Blood, fino a Kerrang! e RockHard) ne tessono lodi sperticate. (Ovviamente non mancarono anche critiche piuttosto aspre: si ricorda per esempio quella di Spin a opera di Rich Stim, che a riguardo di Angel of Death commentò dicendo che «If you ever wondered what effect Hogan's Heroes had on our culture, this is it - a view of the Holocaust as comic book drama, as removed from reality as the Black Plague or Darth Vader.».)
Quello che conta di più, però, è che tutte le novità introdotte dal disco vengono immediatamente assimilate e recepite da tutta la comunità metal. Reign in Blood sancisce istantaneamente lo stato dell'arte del thrash metal nel 1986 per quanto concerne suoni, esecuzione, scrittura e resa sonora, e cambia irrimediabilmente il destino della musica metal, rendendo obsoleti tutti gli altri tentativi di estremizzare le coordinate del genere, già a partire da quelli di Kreator e Dark Angel (che proprio nel novembre dello stesso anno risponderanno alla "sfida" di Reign in Blood rispettivamente con Pleasure to Kill e Darkness Descends, senza però riuscire a emularne la portata storica né tanto meno quella artistica). In questo senso, è esemplare la reazione di Paul Bostaph (ai tempi del suo primo ascolto, batterista nei Forbidden, e successivamente batterista degli stessi Slayer dopo l'abbandono di Lombardo nel 1992), che di fronte a un suono così nitido e a una performance tanto bruciante, l'unica cosa che riesce a dire ai suoi compagni di band è una esplicita e colorita dichiarazione di resa: «We're fucked».
Dopo il 7 ottobre 1986, tutti gli artisti metal che cercheranno di trascendere il thrash metal, accelerandolo, appesantendolo o, in generale, rendendone il suono ancora più violento e l'estetica ancora più oscura, dovranno ripartire da Reign in Blood, primi tra tutti i complessi death metal di fine anni Ottanta (Necrophagia, Slaughter, Death, Morbid Angel, Obituary, Atheist), seppur l'influenza di quest'album abbia in realtà raggiunto praticamente ogni gruppo di metal estremo successivo. Dagli At the Gates ai Korn, dai Pantera ai Sepultura, dai Rorschach ai Today Is the Day, dai Carcass ai Cannibal Corpse, dai Darkthrone ai Napalm Death, non si contano i gruppi che hanno pagato, in un modo o nell'altro, un debito con la musica degli Slayer.
La sua iconicità non si limita però al metal, come dimostrano gli omaggi tributati agli Slayer dal mondo dell'hip hop e dell'elettronica, quali i campionamenti di Angel of Death di Public Enemy (She Watch Channel Zero? da It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back) e KMFDM (Godlike da Naïve), o il digital hardcore visibilmente influenzato dallo speed metal di Reign in Blood degli Atari Teenage Riot, o ancora la partecipazione di Kerry King su No Sleep 'Til Brooklyn dei Beastie Boys (che proprio parallelamente agli Slayer stavano registrando con Rubin il loro full-length Licensed to Ill), o ancora il moniker Necro del rapper Ron Braunstein (ripreso proprio da Necrophobic). Reign in Blood è uno dei pochissimi dischi di metal estremo a esser riuscito a trascendere la propria nicchia di pubblico: anche la quantità di celebrità e vip che indossano t-shirt degli Slayer dimostra come questo gruppo, e di conseguenza quest'album che ne rappresenta il lascito definitivo, siano diventati un fenomeno culturale e sociale di proporzioni mainstream.
Per tutti questi motivi, Reign in Blood si può definire, quasi certamente, come il disco più grande che la musica metal abbia mai partorito.