Il palco di Interzona che ospita i Dead Meadow è un altare dedicato al culto degli anni '70: ampli Orange, Telecaster, un basso Rickenbacker vecchio come il cucco.
La formazione è quella degli inizi: Steve Kille al basso, Mark Laughlin alla batteria e Jason Simon a chitarre e voce.
Si comincia con The Whirling, dall’album del 2003 Shivering King And Others e si comprendono subito due cose: la prima è che il suono dei Dead Meadow così meravigliosamente compresso e chiuso, con tutte le frequenze alte tagliate, dal vivo è ancora più appagante che su disco; la seconda invece è che si può fare rock and roll senza avere sempre la manopola del volume al massimo quando c'è appunto un suono tondo e un pubblico interessato o almeno corretto.
Su 1000 Dreams dall’ultimo Warble Womb le teste vanno giù ondeggianti, il tono lamentoso e nasale di Jason ci porta lontano.
Il vero punto di forza del trio di Washington sono quelle lunghe jam che fanno innervosire i punk e beare i freak e il nerboruto fuzzrock circolare come un raga di Indian Bones ne è prova. Si intravedono qui le prime luccicanti cromature della navicella Hawkwind che invece di sfrecciare a velocità supersoniche nei cieli astrali naviga su midtempi sabbathiani.
Per chi è più legato ai primi, liquidi Dead Meadow, What Needs Must Be può spiazzare con i suoi suoni secchi e stoppati, ma già dal terzo minuto il wah-wah e le altre diavolerie a pedale di Jason ci inebriano e stordiscono.
Uno dei momenti più belli della serata è stato senz'altro quello dell'esecuzione di Yesterday’s Blowin’ Back, una cartolina da ultimi giorni dei sixties, dai colori sbiaditi, struggente nel ricondurci in un’epoca mai vissuta ma interiorizzata grazie a quel veicolo di trasmissione emotiva che è il rock.
E poi ancora ’Till Kingdom Come che suona come una No Quarter degli Zep suonata dai Kyuss, il riffone sgretolante di Sleepy Silver Door rubato ai Blue Oyster Cult e poi sciolto nell'acido lisergico, Greensky Greenlake degna dei migliori Colour Haze.
I Dead Meadow sembrano a ben guardarli dei Cream sbagliati, rallentati, dimentichi del blues. Nel loro sound ci sono pezzi di Hendrix intrappolato in scatola ed altri di un Syd Barrett che in stato di preveggenza anticipa lo stoner rock.
Ma questi qui son troppo bravi ragazzi per confondersi con la teppaglia californiana che scorrazza nel deserto, la loro psichedelia attinge da ben più attendibili fonti primarie.