Pere Ubu - Interzona - Verona, 20.02.2015
Quando ho letto l’annuncio del live dei Pere Ubu ho pensato inizialmente che per una sorta di pudore, di rispetto per la ‘storia’, non ci sarei andato.
L’ho presa alla larga insomma, mi sono avvicinato all’evento con una certa circospezione, chiedendo prima a qualcuno che li ha sentiti a Roma come fosse andata.
‘Devi andarci – mi hanno detto - è stato il concerto più fuori di testa che abbia mai visto’.
Il resto l’ha fatto la location, Interzona, che grazie al suo calendario ‘di qualità’ sempre incoraggia e mai delude (il caso Black Bananas è un capitolo a parte, l’ingestibilità umana della Herrema deve essere stata una novità anche per loro).
L’inizio dello show è stato a cura dei Pere Ubu Moon Unit, cioè sempre loro in un set basato su composizioni free form ad un passo dall’impro ma ho preferito perderlo, quel tempo è servito a prepararmi ai ‘miei’ Pere Ubu.
Il comandante è lì seduto su una sedia e sembra molto più vecchio di quanto in realtà non sia. Bastone e bottiglia di vino per l’ultimo credibile erede di Captain Beefheart in un repertorio che non indulge in nessuna modern dance e che restituisce una annichilita e quantomai appropriata visione della nostra contemporaneità sfilacciata e liquida.
“You are not my friend, I’m not your friend” sembra voler chiarire David Thomas ancora una volta, ove mai ce ne fosse bisogno.
Ecco che il motto “Ars longa, spectatores fugaces” (l’arte è per sempre, il pubblico viene e va) diventa qualcosa di più palpabile di un semplice proclama.
Son quarant’anni che i Pere Ubu fondamentalmente non ci concedono un cazzo; chi ha avuto il coraggio di glorificarli quali re dell’art rock all’epoca non sbagliò, altro che paladini di una generica new wave. Prova ulteriore per le memorie annacquate l’ultimo album Carnival Of Souls dello scorso anno, da cui stasera riprendono Bus Station e Road To Utah, tra le più coinvolgenti dello show, oltre alla conclusiva Irene infarcita di languidi ‘goodnight’ e di inserzioni di Sonic Reducer dal sapore quantomai beffardo vista la lentezza del brano rispetto a quel primigenio violento inno punk.
Keith Molinè alla chitarra, Robert Wheeler all’elettronica e al theremin, Gagarin alle tastiere e synth, Darryl Boon al clarinetto e fisarmonica e Steve Mehlman, notevolmente più giovane degli altri alla batteria, hanno la compostezza formale di chi suona musica da camera, in grado di sublimare le nevrosi che materializzano alternando ruvidi frammenti di rumorismi garage a subdoli intarsi di jazz deviato.
Niente viene eseguito da quel rivoluzionario primo album o dal successivo Dub Housing, è solo la sock dance di David Thomas quel che ci meritiamo oltre ai suoi torpidi biascichii interrotti da epilettiche interferenze.
Allora è il concerto più fuori di testa a cui avremmo potuto mai assistere, come mi è stato promesso? Forse si, ma per ragioni diametralmente opposte a quelle del rock and roll.
Lì, su quel piedistallo grottesco e nudo i Pere Ubu (come un milione di altri profeti, starlette e figurine) ce li abbiamo messi noi. Essi stasera sono qui per smascherare le dinamiche malate di un morente showbiz, a mostrarcene tutta la decadenza.
Ed in questo sono grandiosi, tra i migliori.