Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
Stefano Pentassuglia
Etichetta: 
Hummus Records
Anno: 
2014
Line-Up: 

Michael Schindl - Voce, Chitarra

Diogo Almeida - Chitarra

Sebastien Dutruel - Basso

Mario Togni - Batteria

Tracklist: 

1. The Enemy

2. Submersible Words

3. Chest

4. Grand Gendarme

5. Black Horse

6. Joseph

7. Mute

8. Uncomfortable Life

9. Courageous

10. For The Man That I Love

11. God Rules His Empire

Impure Wilhelmina

Black Honey

Sei lunghi anni: tanto hanno dovuto aspettare gli Impure Wilhelmina, prima di veder pubblicata la loro nuova fatica discografica e dare un taglio più o meno netto al passato. Quasi sconosciuti qui nel Bel Paese, nella natia Svizzera la band di Michael Schindl rappresenta un punto fermo nella cosiddetta “scena di Ginevra e dintorni”, quella che vede le sue colonne portanti in un fermento di band che hanno contribuito a creare un certo modo di intendere il post metal: dai Rorcal ai Vancouver, dagli Abraham ai When Icarus Falls, dai Khelvin agli Elizabeth, passando per band come i Knut che sono riusciti a uscire dall’anonimato svizzero per guadagnarsi una solida base di fan anche all’estero, o gruppi non propriamente ginevrini come gli Unhold (di Berna) o i Geneva (di Valence), che rispecchiano comunque quel determinato modo di sentire e concepire la scena “post”.
Un taglio con il passato, dicevamo. In effetti basterebbe notare come la band non sia più inclusa tra le fila del sito MetalArchives (dove appariva come “sludge”) e alla line up completamente stravolta per capire come il sound del nuovo disco rappresenti qualcosa di diverso e una naturale evoluzione della band. Forse anche a causa degli sfoghi post-black metal di Schindl con il suo progetto Vuyvr, un nuovo sound pervade ora le tracce dei nuovi brani, grazie soprattutto all’addio del caro vecchio Christian Valleise (già ascia nei Knut) e all’arrivo alla seconda chitarra del simpatico Diogo Almeida, già membro dei Rorcal e con una visione della musica leggermente più pesante e distruttiva. Se questo possa essere finalmente il disco della consacrazione per il quartetto di Ginevra non ci è ancora dato saperlo (sempre ammesso che loro stessi vogliano uscire dal caldo underground in cui sono inevitabilmente rinchiusi), di sicuro però si tratta di un’ulteriore maturazione e rivisitazione di un sound che già fin dagli esordi aveva in sé una fortissima dose di personalità.
Prima grande novità dell’album è la voce: per quasi la totalità del disco Schindl decide di esprimere i suoi demoni interiori con un cantato pulito e lamentoso, che mette quasi completamente da parte il lacerante screaming dei lavori precedenti. Non che questo sia un lato positivo di per sé (soprattutto se consideriamo che il leader degli Impure stona un bel po’ quando canta sul registro melodico), tuttavia è uno degli aspetti più controversi di Black Honey che possono far riflettere sul cambio di rotta intrapreso dai quattro. Se il gruppo già prima godeva nel rendere disomogenei i suoi lavori, in un’orgia di generi che si accavallavano tra di loro, ora tutto è ancora meno omogeneo e straniante, dove sludge profondo e post metal sognante si uniscono ad un’attitudine talmente rock e “romantica” da risultare quasi una forzatura del loro stile. 
 
La personalità della band si intravede ancora tutta nei ritmi e nelle distorsioni di The Enemy, che parte con delle strofe dissonanti e si ritrova invischiata in riff pesanti ed emotivi. L'emotività, appunto: uno degli aspetti da sempre più caratteristici del combo viene ora rielaborata in modo da permeare ogni brano, sempre però in favore del continuo cambio umorale. Submersible Words è un perfetto esempio sotto questo punto di vista, con il suo incipit drammatico che tenta di fare il verso al math rock e alle sue strutture complicate, prima di sfociare in un finale che stravolge completamente quello che era il mood iniziale del brano. Stessa cosa, anche se all’inverso, succede con Joseph, che parte semplice e ruffiana, con i suoi ritmi quasi punk, per poi evolvere in atmosfere lugubri che ricordano da vicino l’operato di colonne portanti dello sludge più malsano come i Rwake e forse persino i Minsk. Del resto, la ruffianeria della band rimane solo un aspetto della loro sfaccettata personalità, se consideriamo l’eleganza di brani come Chest e Uncomfortable Life, costruiti su riff raffinati e aperture sonore viscerali ed emotive; per non parlare poi di un brano come Corageous, che cerca di mostrarsi il più epico e trascinante possibile, distaccandosi dallo stile del precedente album Prayers And Arsons, dove l’epicità era un tratto solo tentato e abbozzato ma mai raggiunto a livello di forma canzone. Lo stile sonoro della band, tuttavia, continua a far sentire la sua presenza in ogni brano (e altri brani dell’album, come Mute, mantengono ancora solido quel cordone ombelicale che lega la band allo stile dei suoi primi lavori): non ce n’è nemmeno uno che possa essere stato scritto da un’altra band e una recensione non può spiegare quello che le orecchie hanno capito dopo tanti ascolti della loro intera discografia confrontata con quella di tante altre band della stessa scena. Per essere più chiari, non esistono altre band che suonano quella particolare tipologia di riff, che concatenano in modo così genuino quell’attitudine ruffiana e caciarona con la drammaticità e l’emotività dell’alternative rock, sotto lo sfondo di pesanti riffoni post metal e lezioni prese dalla scuola sludge della Georgia. Volendo fare un paragone per tentare di chiarire meglio il concetto, gli Impure Wilhelmina potrebbero essere definiti come “i System Of A Down del post metal”, tanto la loro proposta è originale e variegata, pur senza mai tradire realmente il codice stilistico del genere da cui provengono.
Se tutto sembra così ispirato al rock e al post metal più emotivo e più vicino alla forma canzone, la granitica God Rules His Empire viene emblematicamente posta alla fine del disco, quasi a confermare quali sono le vere origini del gruppo. Questa canzone, dalla durata di ben 11 minuti, per quanto possa risultare un po’ troppo di maniera e sembri fare direttamente il verso ai Neurosis più accessibili, rappresenta in qualche modo quanto di meglio ha saputo offrire la scena sludge negli ultimi anni, almeno simbolicamente: con il suo concatenarsi di riff, di voci spezzate e di melodia malsana che avvolge l’ascoltatore in un distruttivo turbine di autodenigrazione (“We are weaklings and cowards, just ordinary men”), questo brano potrebbe davvero essere l’esempio perfetto da far ascoltare a chiunque voglia capire quali siano gli stilemi stilistici di un genere come lo sludge metal.
 
Dopo l’ascolto attento di “Black Honey”, di una cosa divento sempre più convinto: gli Impure Wilhelmina sono una di quelle band che è riuscita a crearsi uno stile estremamente personale che rende riconoscibili le loro canzoni in mezzo a miliardi di altre composizioni dello stesso genere. Solitamente le band che appartengono a questa categoria, sempre più rare in verità, o si amano o si odiano; tutto dipende da un indiscutibile de gustibus ma, al di là del fatto che uno possa preferire voce lamentosa e drammaticità rock a pesanti riffoni figli della scuola di Scott Kelly, di sicuro la band svizzera ha dato vita a qualcosa di diverso, di unico ed inimitabile, che oltre a rappresentare un punto di riferimento per la scena “post” di Ginevra, potrebbe in futuro rivelarsi fondamentale per lo sviluppo di un genere che già dallo scioglimento degli Isis sembra procedere sempre di più verso la sua naturale decadenza.
Affermazioni esagerate? Forse, e solo i posteri potranno dirci se questo sound avrà fatto proseliti e dato alla vita nuove band nella scena. Per ora poco ce ne importa, se possiamo infilarci le cuffie e godere ancora delle insane composizioni di una band genuina e veramente di talento. Che questo sia il disco della consacrazione o meno.
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