Decidere di recarsi ad uno show di Douglas P. e della sua creatura Death In June oggidì significa essenzialmente verificare la risposta ad una domanda implicita nel titolo del suo brano But What Ends When Symbols Shatter?
Non si tratta solo dei simboli sottesi alle sue creazioni artistiche ma soprattutto di capire il nostro ‘vissuto simbolico’ a fronte di essi e dell’ineluttabilità del tempo che è trascorso: assistere ad un concerto può anche assolvere a tale funzione.
Gli Spiritual Front che aprono la serata diventano sempre più bravi e noiosi. Le immagini del film ‘Mamma Roma’ sullo sfondo, la ricerca sempre più meticolosa di atmosfere folk mitteleuropee e le influenze noir mediterranee restano istanze un po’ fini a sé stesse poiché immerse in un contesto socio-temporale così lontano da quelle ‘culture’ e dalla nostra attualità da apparire come corpi estranei.
Questo non è imputabile al gusto musicale degli Spiritual Front di cui non si può ovviamente discutere, quello che si vuole sottolineare è la scelta estetica con cui questi elementi vengono portati sul palco, quell’’atteggiamento’ new wave che sembra stridere con i contenuti della proposta. Molto meglio quando la situazione diventa più rumorosa e rockeggiante perché caduti i veli dell’immagine resta la fisicità della musica che parla da sola e dimostra quanto in realtà la formazione romana sia strumentalmente capace di creare una buona tensione e dei notevoli gorghi sonori molto più efficaci di tanta sofisticata vacuità precedentemente manifestata.
Sul palco, al momento del cambio girano i consueti personaggi definibili come ‘roadie’. La prima offesa che ci fa il tempo è quella di non farci riconoscere Douglas Pierce che si aggiusta da sé la strumentazione e i microfoni: quell’uomo con i baffi brizzolati è lui. Chi scrive ha visto diverse volte Death In June on stage ma può assicurare che non è stato l’unico a non capire che quell’uomo sul palco era Douglas P., a giudicare da quel centinaio di persone impazienti – molti veri fans – rimaste nella distrazione annoiata dell’attesa.
L’altro elemento che colpisce è che oltre al consueto corredo di stendardi e simboli storici dei Death In June, campeggia in alto, accanto al totenkopf argentato, la bandiera dell’orgoglio omosessuale. Che Douglas P. non abbia mai fatto mistero delle sue inclinazioni è tanto vero quanto il fatto che non le abbia mai ostentate, tantomeno sul palco. Chi conosce l’atmosfera che si respira ai concerti dei Death In June può agevolmente immaginare come quell’esplosione di colore possa stridere – intendo come suggestione estetica - con tutto il nero dominante.
L’inizio dello show non disattende le nostre aspettative. John Murphy e Douglas P., entrambi in maschera, consueto look miltare, cominciano a percuotere i tamburi e le percussioni varie secondo le modalità marziali e rituali di sempre.
Quando poi Douglas Pierce toglie la maschera ci accorgiamo dei segni del tempo. Se prima quel viso albionico ed occhialuto poteva ricordarci quello di un giovane ufficiale della ‘Campagna d’Africa’ o di un archeologo impegnato nella decifrazione di chissà quali misteri runici, oggi egli appare nella migliore delle ipotesi come un distinto colonnello in pensione.
E se il tempo passa per tutti - e non è colpa di nessuno – che fine fa poi l’arte che abbiamo tanto amato? Come può venire ingiuriata da esso? La risposta è tutta nell’esecuzione dei brani che vengono snocciolati – solo voce e chitarra acustica – oltre al buon Murphy dietro ai tamburi – uno dietro l’altro, velocemente, al punto di snaturarne le melodie vocali. Forse la voce ne è costretta, incapace di mantenere la profondità di un tempo.
Little Black Angel, But What Ends.., Fall Apart, Runes And Men, All Pigs Must Die, She Said Destroy, il classico canzionere della Morte In Giugno viene eseguito tutto ma queste canzoni stasera sembrano esprimere qualcos’altro rispetto a quello che volevamo, che credevamo, che immaginavamo e che forse sognavamo (..‘Oh, How We Laughed’..).
Però c’è dell’altro che forse legittima tutto questo.
Douglas P. sul palco parla tanto rispetto al passato. Presenta i brani, li dedica alle persone care che decide di commemorare, ci chiede scusa quando – spezzate le corde della chitarra sotto la veemente ritmica del suo folk apocalittico – dice che lascerà il palco per qualche minuto per cambiarle ed accordare (l’idea che ci sia qualcuno che possa farlo per lui, almeno dal vivo, sembra non essere neanche contemplata), ci chiede cosa desideriamo ascoltare, non perché egli sia diventato un uomo juke-box ma perché lui è lì per noi e noi siamo là per lui e dietro la banale motivazione ‘della pagnotta’ questa non sembra affatto ‘una marchetta d’autore’.
Perché quando decide di invitarci a cantare o a fare handclapping dicendo che ‘..tanto le canzoni dei Death in June fanno tutte pepeppè, papappà…’ denota in primo luogo una grande autoironia, dote che si conquista solo con l’età, con la maturità (mentre tante figure tetragone e decadenti della scena neofolk e martial-ambient non sanno neanche cosa significhi).
E’ in quest’ottica, sorta di distacco naturale anche dalla propria opera, che potrebbero giustificarsi in parte certe sue scelte, certe sue affermazioni ed il suo stile di vita. Lui che ha sempre criticato le società contemporanee con l’arma affilata della sua musica molto vicina – almeno nel periodo che più ci piace - alla poesia, forse non vuole più aderire ad un ‘circolo’ e a dei ‘codici’ di cui sente sempre meno l’appartenenza (la società dello spettacolo, lontano dai lustrini dei grandi eventi mainstream, dimostra ancora più facilmente le sue dinamiche malate e si configura come parte di quel grande organismo in decomposizione che il nostro, anche con scelte talvolta opinabili, ha sempre ripudiato).
A conforto delle mie tesi arriva l’ultimo colpo di coda di mister Pearce quando tira fuori il suo sdegno all’indirizzo di un incauto tecnico che diffonde la musica ancor prima che Death In June abbia lasciato il palco, urlando ‘stop this fuckin’ music, I’m still on the stage. E quindi ritornando per l’ultima rullata di tamburo che riecheggerà in questa notte post-pasoliniana, questa notte di periferia popolata da qualche darkettone non proprio di primo pelo, da qualche esponente di una sempre più confusa destra sociale e borgatara e da altra varia umanità accorsa qui stasera in nome di un inappagato esoterismo. O semplicemente della nostalgia.
Se lo scrittore Walter Siti si trovasse a passare da queste parti in occasione di eventi simili, qualche spunto interessante per i suoi prossimi romanzi son certo lo troverebbe.