Associazione Röcken ed Emporio Malkovich ancora una volta riescono ad illuminare questo angolo di Nordest e a tenere viva l’attenzione sulla scena indie nazionale mettendo in piedi eventi ad essa correlati come questo minifestival di due giorni per un totale di quattro esibizioni.
La tranquillità del luogo (gli impianti sportivi di Sommacampagna) e la placidità con cui il tutto si è svolto, lontano dall’hype e dai clamori che spesso avvolgono i grandi festival, ci suggeriscono che sono queste situazioni ad essere una valida alternativa alla rete degli appuntamenti che l’estate affollano le nostre agende.
La prima serata prevede l’esibizione di Edda (Stefano Rampoldi, ex cantante dei ritmo Tribale), personaggio assolutamente desueto ed anticonvenzionale nel panorama alternativo nazionale. Lì sul palco sembra esserci stato messo per caso e tra una frase e l’altra è una forma di imbarazzo e timidezza solo apparenti a venir fuori perché poi la musica rivela ben altra pasta.
E’ difficile capire il suo percorso artistico con quella voce che sembra provenire da un altro ‘sè’ che ha dentro, tra quelle liriche e quei suoni rugginosi e tirati, espliciti quanto ermetici, elettrici ma abbagliati da lampi elettronici, sapientemente coadiuvato da Alessandro ‘Asso’ Stefana (che non ha bisogno di presentazioni per chi segue l’indie italiano) alla chitarra elettrica e Sebastiano De Gennaro diviso tra percussioni e rumorismi vari. I brani presentati questa sera sono in parte tratti dal suo ultimo album ‘Odio i vivi’ ma anche da quel ‘Semper biot’ che nel 2009 riportò il nostro sui palchi dopo anni di difficile silenzio.
La naïveté di Edda fa sì che la semplicità della sua figura catalizzi l’attenzione, quasi ipnotizzi l’ignaro ascoltatore inconsapevole se seguiranno tempeste noise o lamenti soffocati. Alla fine dello show Stefano ringrazia e saluta con gentilezza e va via: non so esattamente perché, ma fa tenerezza.
Ora tocca agli Uzeda continuare la serata. Non si può nascondere che nell’aria gira un po’ di cinismo ed ironia per questi vecchi alfieri del math rock italiano e qualche battutina di troppo si spreca circa l’età e l’aspetto dei componenti. Fortunatamente basta la loro musica a smentire tali malelingue e cancellare cattivi pensieri pregiudizievoli (se solo tali soggetti si chiedessero quanti gruppi italiani hanno potuto vantare negli anni un sound tale da essere apprezzati dalle eminenze grigie del genere al punto di collaborare con Steve Albini e Shellac, Don Caballero, contrattualizzare con Touch & Go e partecipare alle Peel Sessions!).
Giovanna Cacciola all’inizio sembra un po’ una Patti Smith del noise, ma man mano che si procede e i ritmi diventano sempre più serrati e sghembi le sue litanie recitate si intrecciano con la chitarra sempre più tagliente e grondante feedback di Agostino Tilotta, completamente posseduto e piegato sul suo strumento quasi a tirar fuori blocchi di materia noise come un artigiano. Raffaele Gulisano al basso e Davide Oliveri alla batteria sono dei metronomi asimmetrici e sincopanti, con il primo che sembra scrutare il pubblico e guardare negli occhi uno per uno, mentre gira sul palco armato del suo basso come fosse un Uzi ed il secondo che trova anche il tempo di sorridere e divertirsi mentre tira giù un inferno di geometrie soniche. Ammirevole la dedizione che riservano da anni alla loro causa artistica e ancora notevole l’impatto fisico che promana dai loro strumenti, a conferma che per certe cose l’età anagrafica vuol dire ben poco.
La seconda serata purtroppo ci vede un pò in ritardo e quando arriviamo l’esibizione di Paolo Benvegnù sta volgendo al termine, ma riusciamo comunque ad ascoltare alcuni tra i brani più belli e significativi della sua discografia quali La schiena e - dall’ultimo album Hermann – Moses e Love is talking. Un vero peccato non poter aver goduto di più di Benvegnù in una situazione così amena.
L’ultimo act della serata e del minifest è Marta Sui Tubi. Una ventata di allegria prende posto sul palco e purtroppo qualche nuvola di troppo si raduna nei cieli sopra Verona: proprio all’inizio del loro concerto comincia a piovere. Ci rifugiamo sotto un gazebo ai lati del palco, mentre il combo continua divertito il suo show per gli ombrello-muniti. Che insolita prospettiva: sono praticamente ai piedi del batterista.
Fortunatamente dopo un paio di brani (La spesa, Una donna e la sua semplicità) smette di piovere e la band acquista sempre più brio, snocciolando brani dal suo ormai vasto e vario repertorio, da Camerieri a Di Vino, da Cenere a Dio come stà, da L’unica Cosa, molto intensa e partecipata dal pubblico a L’abbandono, alternando quindi momenti dall’appeal comico – ed in questo Giovanni Gulino è un vero mattatore con i suoi quasi scioglilingua velocissimi ed impossibili – ad altri più poetici e riflessivi, passando da un accenno di Samba Pa Ti alla cover di De Andrè Amore che vieni amore che vai.
Ancora due must della formazione ormai siculo-sardo-lombarda, Post e Cristiana prima dei momenti più alti della serata: una poesia di Peppino Impastato, Negghia, e Cromatica, registrata insieme a Lucio Dalla, personaggio che ha evidentemente influito nella musica e nei ricordi di Marta Sui Tubi. Ancora un po’ di cabaret antileghista, un accenno di I Feel Love di Donna Summer ed un saluto finale ‘a cappella’, a metà tra un coro gregoriano ed una prova polivocale da corale sarda.
Giorni Imperfetti, non solo dal punto di vista meteo ma anche per quello che stiamo vivendo, è stato un nome perfetto.