Matteo Fiorini - chitarre, lapsteel, ukulele
Laura Lalla Domeneghini - voce (track 8)
01. Little Frog
02. La classe operaia brucia all'inferno
03. Ma Maison
04. Le train
05. J'avais deja écrite tout
06. Cantagallo
07. God bless you, bankrobber
08. Mamma mia, dammi cento lire
09. No windows blues
10. Santa Maria del ribelle
Merde, il pleut
Sembra l’intro di ‘15 Seconds or Five days’ degli Anastasia Screamed quella di ‘Little Frog’, ma per il resto del disco non si parla di rock.
Il disco è ‘Merde, il pleut’ del giovanissimo chitarrista bresciano Matteo Fiorini che oltre alle chitarre elettriche ed acustiche suona qui anche lapsteel ed ukulele e lascia ben sperare chi dal mondo dell’elettroacustica si aspetta tante belle rifrazioni folk, blues, certamente alternative ma non esasperatamente avanguardistiche da rasentare l’ermetismo musicale o l’inascoltabile.
L’origine del nome è da cercare nel romanzo ‘54’ del collettivo Wu-Ming e l’etichetta Petits Machins è una giovane label italo-francese dedita a questi suoni di frontiera.
In Merde, il pleut sembra di assistere alla descrizione in ‘slide mode’ di un paesaggio rurale familiare, ma forse questo non è nelle intenzioni dell’artista: c’è più Cabeki che Ry Cooder, diremmo, in certi salti geografici incondizionati e in certi sapori un po’ old-America (benedetta lapsteel!).
E da Bill Frisell il nostro sembra quasi mutuare il senso di religioso rispetto per l’attesa, per il vuoto, per il silenzio che si avverte in certe tracce riflessive come ‘ J'avais deja écrite tout’ o ‘God Bless You, Bankrobber’.
La capacità di racconto, il passo della narrazione comunque è già tutto Mc Guffin Electric a dispetto della giovane età e la sua poetica è già molto personale come lo è la rilettura di alcune pagine strumentali, propriamente chitarristiche, mutuate da diversi mondi sonori (basti pensare all’inusuale e – per il piglio con cui è trattata- quasi filologica ‘Mamma Mia Dammi Cento Lire’, pezzo importante del canzoniere storico dell’Italia settentrionale alle prese con il suo dramma dell’emigrazione in Sud America negli ultimi decenni dell’800).
In conclusione, per chi è avvezzo a certi ascolti, solo piacere potrà derivarne dallo scoprire che piccoli Mazzacane Connors crescono anche qui da noi, mentre invece se proprio si vuole trovare dei difetti, forse essi consistono nella troppa uniformità dell’intero lavoro, nella relativa mancanza di differenze di cromatismi in grado di far cogliere tutte le sfumature presenti nella musica di McGuffin Electric, in quella veste ostentatamente scarna fatta di pochi suoni che si ripetono lungo tutto il lavoro e che potrebbe tenere lontano quella parte di pubblico che al sol sentire parole come impro o contemporanea si spaventa. L’impressione che se ne riceve è quella di un suono ‘sottoesposto’, che risente di una eccessiva legnosità e che riverbera di una polvere lo-fi che eliminata avrebbe conferito maggior scintillìo alle tracce.
L’auspicio è quindi quello di usare tutta la tavolozza dei colori, perché se non a venti anni, quando?